Il “processo” è finito, ognuno ha avuto
ciò che desiderava;
Pilato, inaspettatamente , una pubblica
dichiarazione di
affetto verso Cesare da parte dei sommi
sacerdoti; Caifa,
dopo un’estenuante duello sul filo del
rasoio, la condanna
per crocifissione del Nazareno; Erode
un’inattesa attenzione
da parte del prefetto.
Gesù è una piccola rotella in un
complesso mondo,
in cui ognuno ha le sue buone ragioni per
farlo fuori.
Dio si usa, quando serve, altrimenti è
meglio sbarazzarsene.
Pilato allora decretò che fosse
eseguita la loro richiesta.
Rilasciò quello che era stato
messo in prigione per
sommossa e omicidio, e che
quelli richiedevano,
ma consegnò Gesù alla loro
volontà (Luca 23,24-25).
Gli uomini non fanno la volontà di Dio.
Gesù, allora, è consegnato alla volontà
degli uomini.
Se non avessimo più di duemila anni di
predicazione e di
Via Crucis alle spalle, rabbrividiremmo,
leggendo questa
annotazione di Luca!
La storia degli uomini è anche segnata
dal tentativo di
convincere le divinità a piegarsi ai
nostri desideri, alle
nostre necessità.
La passione ci svela un Dio che
accondiscende alla volontà
degli uomini, che, però, è una volontà di
morte.
Gesù viene condotto al patibolo perché il
volto di Dio che
annuncia e rivela è intollerabile,
disturba e scandalizza.
Troppo compassionevole, troppo generoso,
troppo amorevole, il suo Dio.
La religione, fino ad allora usata come
strumento per
mantenere l’ordine costituito, esce dagli
schemi rigidi in
cui gli uomini religiosi l’hanno
costretta, per diventare
un’esperienza personale, interiore e
comunitaria.
Con l’amore di un Dio benevolo e
sorridente.
Un delirio.
Preferiamo tenerci il volto corrucciato
di un Dio antipatico
ma potente, indifferente ma schierato con
le nostre
ragioni, all’occorrenza.
Gesù va eliminato, non c’è dubbio.
Un profeta abitato dallo Spirito, che ha
compiuto solo opere
di bene, che ha smascherato l’ipocrisia
nascosta dietro alla
devozione senza fede, che ha riletto con
passione e verità
la Parola data da Dio agli uomini, riportandola
alla sua origine,
è certamente più pericoloso di Barabba,
omicida e sobillatore.
I giudei, presero dunque in
consegna Gesù.
Egli, portando la croce da sé,
uscì verso il luogo detto
del Cranio, in ebraico Golgota (Giovanni 19,16-17).
Pilato consegna Gesù a Caifa; si forma un
piccolo drappello,
composto da soldati romani e, forse, da
soldati del tempio.
Gesù, duramente provato dalla
flagellazione che, ricordiamo,
poteva portare alla morte, è caricato del
patibolo, una trave
che gli è posta sopra le spalle
sanguinanti e legata ai polsi.
A questa trave, una volta arrivati al
patibolo, il condannato
è inchiodato con due chiodi,
probabilmente passati nel polso,
conficcati nel legno e ripiegati, per poi
essere innalzato,
sollevato da quattro soldati, e
appoggiato sopra un palo
verticale precedentemente fissato, alto
non più di due metri.
Il luogo dove Gesù è condotto è il
Golgota, una cava di
pietra in disuso addossata alla porta
ovest della città.
Era abituale trovare delle cave di pietra
intorno a Gerusalemme;
quella del Golgota è abbandonata;
probabilmente la pietra
non è di buona qualità, come rivelano gli
scavi sottostanti il
Santo Sepolcro, e qualcuno l’ha
riadattata per scavare delle
preziose tombe.
Il Golgota perciò confina con una serie
di ricche tombe
scavate nella roccia e circondate da un
giardino.
Il tragitto che Gesù compie non è lungo;
dal palazzo di Erode
al Golgota ci sono poche centinaia di
metri.
Lo segue una folla di persone; chi lo ha
condotto per essere
giudicato e vuole essere sicuro della sua
morte, alcuni discepoli,
fra cui l’evangelista Giovanni, alcuni
curiosi.
La crocifissione avviene fuori della
città; dentro le mura,
infatti, sarebbe impossibile, renderebbe
impuro il tempio.
Il sommo sacerdote Caifa deve correre al
tempio prima del
tramonto; le minuziose norme di
purificazione che lo
riguardano non devono essere infrante per
nulla al mondo;
certamente non esce dalla città e, se
assiste all’esecuzione
di Gesù, lo fa dall’alto delle mura.
L’idea che Caifa, da lì a poche ora,
indosserà i solenni
paramenti per uccidere l’agnello
pasquale, mi mette i brividi.
È come se un prete pedofilo, rovinasse un
ragazzo
e poi andasse a prepararsi per celebrare
l’Eucaristia.
Assiste alla morte di Dio, e pensa di
onorarlo offrendogli
un agnellino, dopo avergli massacrato il
Figlio.
Spesso nella sua predicazione, Gesù ha
parlato di portare
la croce, un modo di dire, forse,
derivato dall’esperienza
degli abitanti di Gerusalemme che
assistevano a numerose
esecuzioni, con i condannati che
attraversavano la città
portando il patibolo.
Gesù, usando anche l’immagine del giogo
del bue, indica
la fatica dell’essere discepoli,
l’impegno che comporta
convertirsi alla visione di Dio che Egli
inaugura,
lo sforzo per adeguarsi alla logica del
Regno.
Credere, ciò, comporta una morte a se
stessi,
una fatica, ma anche una liberazione.
E, invece, questo modo di dire è stato
foriero di mille
interpretazioni; e di mille sensi di
colpa.
Voglio ancora ribattere un’idea per me
fondamentale,
visto che Gesù è morto per proclamare, e
che non smetterò
di ripetere, a costo di sembrare un
paranoico.
Dio non manda le croci, non le ama e ne
farebbe
volentieri a meno.
La sofferenza, la malattia, i litigi, la
depressione,
un fallimento lavorativo, non dipendono
da Dio,
ma da noi e dagli altri.
Da noi, quando ci facciamo mille giri di
testa su cosa
vorremmo o dovremmo essere, e siamo
sempre
scontenti di noi stessi e della nostra
vita.
Dagli altri, quando si divertono a farci
tribolare
per invidia o per malvagità.
O, ancora, dalla congiuntura
internazionale che ha mandato
sul lastrico l’azienda in cui lavoro,
dall’inquinamento
atmosferico, che è all’origine del mio
cancro, e così via.
Gesù parla del discepolato come fatica da
assumere,
non di un Dio sadico che, avendola
portata Lui, decide
di caricarci di una croce per vedere
quando crolliamo!
Dio non ci manda la croce e, potendolo,
anche Lui ne avrebbe fatto volentieri a
meno.
Ma se la croce arriva, o perché altri ci
caricano o perché
noi stessi ce la costruiamo, allora
bisogna portarla
guardando avanti, senza farsi
schiacciare.
Conosco devoti, non voi, gli altri, che
quando sentono parlare
della croce di Gesù cominciano, davanti a
Dio che muore,
a lamentarsi dei propri malanni o dei
dispetti ricevuti.
Portare la croce non significa alzarsi
ogni mattina,
piallarla, carteggiarla e verniciarla!
Per quanto dipende da noi, evitiamo di
caricarci di croci
che non rendono in alcun modo gloria a
Dio e se, invece,
ne siamo caricati, allora portiamola
uniti a Cristo.
Come Simone! Il Cireneo!
Mentre lo conducevano fuori per
crocifiggerlo,
costrinsero un passante che
tornava dai campi,
Simone di Cirene, padre di
Alessandro e Rufo,
a portare la croce di Lui (Marco
15,20-22).
Lo condussero, così, al luogo detto
Golgota,
che significa luogo del Cranio.
Gesù non ce la fa proprio; la tensione
interiore, la notte
insonne, l’interrogatorio, la
flagellazione, gli scherni,
il peso del patibolo…..!
Cade sul selciato e fatica a rialzarsi.
Allora un soldato prende un uomo a caso
dalla folla, uno
che torna dal lavoro e che si ferma a
vedere cosa succede;
(mai fermarsi a curiosare, può
succedere anche di prendere
le colpe), slegano la croce e la
pongono sulle spalle di Simone
di Cirene, uno sconosciuto di passaggio, (non sempre
sono parenti e amici ad
aiutarti).
Non un amico, un discepolo, un compagno
di avventura;
uno sconosciuto.
Prendono uno che compie un gesto forzato,
senza entusiasmo,
senza generosità, imprecando in cuor suo,
timoroso, anche
di essere anch’egli scambiato per un
delinquente.
Un temporaneo compagno di malasorte, come
un vicino
di letto in ospedale, o alla mensa dei
poveri, uno che
ha in comune con te solo la disperazione.
Eppure.
Non sappiamo nulla di Simone.
Non sappiamo se quel quarto d’ora passato
a portare la
croce di Gesù sia stato qualcosa di più
di un brutto
momento da raccontare, il giorno dopo, ai
vicini di casa.
Così è la croce; non desiderata, arriva
quando meno te
la aspetti, alla fine di una faticosa
giornata di lavoro.
No, Dio non ti manda nessuna croce, nel
caso di Simone
sono i soldati romani che gliela
impongono.
Ma quel suo gesto obbligato, in qualche
modo,
l’ha scosso, interrogato, cambiato.
Marco, raccontando il gesto di Simone, non
ne parla come
di uno sconosciuto, ma come del padre di
Alessandro
e Rufo, due persone a lui note,
probabilmente due
discepoli che frequentano la comunità di
Gerusalemme.
Il gesto di Simone è stato una
benedizione per lui
e la sua famiglia.
Quando ci troviamo a portare la croce,
pensiamo che
stiamo aiutando Cristo a portarla, e che,
così facendo,
lo aiutiamo a salvare il mondo,
manifestando la misura
dell’amore di Dio.
E quel gesto, forzato, non bello, non
elegante, può fiorire
nella nostra vita interiore, e in quella
di chi amiamo.
Sulla strada che conduce fuori dalla
città, Luca ci racconta
un curioso episodio, denso e
significativo, quello delle
donne piangenti.
In passato molti commentatori hanno
sottolineato la
misericordia del Signore nei confronti di
queste donne,
immaginate come devote discepole affrante
dal dolore.
Bello, poetico, finalmente qualcuno che
prova compassione
davanti all’indurito dolore del Nazareno.
E invece no.
Mi ha sempre lasciato perplesso questa
interpretazione.
Poi, qualche anno fa, leggendo il testo
delle meditazioni alla
Via Crucis al Colosseo scritte
dall’allora Cardinal Ratzinger,
mi sono rasserenato; la pensiamo allo
stesso modo.
No, quelle donne non sono delle affrante
discepole,
ma una compagnia della buona morte
chiamata, forse,
figlie di Gerusalemme, che accompagnava i
condannati
a morte, e che piangevano lacrime su chi,
normalmente,
non aveva nessuno che piangeva per lui.
Il loro, è un pio atto di devozione e di
compassione. Falso!
Gesù non vuole lacrime finte, vuole la
conversione dei cuori,
non ama l’apparenza, vuole la sostanza, non
le opere caritative
fatte una volta all’anno, ma un cuore
compassionevole sempre,
non ha bisogno di una claque che faccia
partire l’applauso,
ma di discepoli che seguono il Maestro
nel dono di sé.
Gesù è gravemente ferito, esausto, eppure
trova la forza di reagire.
Le sue parole sono taglienti; non ho
bisogno delle vostre lacrime,
tenetele per i vostri mariti, che hanno
permesso di uccidere
un innocente, conservatele per quando la
violenza genererà
violenza, e il vento seminato diverrà
tempesta e tutto crollerà.
Gesù profetizza il crollo di Gerusalemme?
Facile profezia; l’equilibrio raggiunto
dalla città è continuamente
messo in discussione dalle lotte interne
e dalle tensioni internazionali.
Gesù fa un servizio alla verità, scuote
queste pie donne
dell’aristocrazia religiosa, dal loro
mondo dorato per riportarle
con i piedi per terra.
Piedi che pestano sangue.
Non sempre chi ti dà una carezza ti vuole
bene
e chi uno schiaffo ti vuole male,
ricordiamocelo.
A volte, anche una frase forte, uno
schiaffo morale,
può testimoniare un grande affetto.
Il corteo ha finito il suo percorso, sono
arrivati alla cava, al Golgota.
Gesù viene spogliato della tunica, lo
cinge un perizoma di cotone
o lino, che non gli viene tolto.
Abitualmente, nell’impero romano, si era
crocifissi nudi,
ultimo segno di disprezzo, come le povere
vittime della
follia nazista che erano spogliate prima
di entrare nelle
camere a gas, per avere un lavoro di meno
da compiere!
In Giudea pare di no; Roma non aveva
interesse a compiere
gesti che la cultura locale avrebbe
considerato provocatori.
Gesù è pronto per essere inchiodato e
innalzato.
Volevano anche dargli del vino
aromatizzato con mirra,
ma Egli non lo prese.
Matteo parla di vino mischiato con fiele,
Marco di vino
mischiato con mirra, ma la sostanza non
cambia; è un
blando anestetico, una misera forma di
compassione
per stordire il condannato durante la
crocifissione, momento
molto doloroso che comportava, fra le
altre cose, la frattura
di alcune ossa del polso e del legamento
del pollice.
Gesù rifiuta la bevanda, probabilmente
vuole restare
lucido fino in fondo.
Vuole mantenere la consapevolezza e la
coscienza di sé per ciò che sta
compiendo.
Non è facile raggiungere la
consapevolezza e la coscienza
delle cose che si vivono, nella vita.
La fede, quella vera, ci può aiutare
molto in questo percorso.
Più spesso, durante i momenti di dolore
siamo completamente
storditi e poco lucidi, e rischiamo di
prendere delle
decisioni avventate.
Gesù ha piena consapevolezza di ciò che
accade.
I suoi carnefici, secondo Lui, no.
È Luca a riferire questo particolare che
mette i brividi.
Quando giunsero sul posto, detto luogo
del Cranio, là
crocifissero Lui e i due malfattori, uno
a destra e
l’altro a sinistra.
Gesù disse: “Padre,
perdona loro,
perché non sanno quello che
fanno” (Luca 23,33-34).
Siamo al momento più tragico; i
condannati sono slegati,
distesi, in terra, due soldati tengono
fermo il disgraziato
mentre un terzo, con un grosso martello,
gli conficca un
chiodo lungo una ventina di centimetri,
poi viene fatto
alzare e tirato su per le gambe e
incastrato al braccio verticale.
A questo punto gli si piegano le gambe e
un altro chiodo
è conficcato unendo i piedi, tenuti
sovrapposti.
La posizione del crocifisso è innaturale
e dolorosa; la maggior
parte del peso del corpo è sostenuto dai
polsi, trafitti dai chiodi;
la posizione irrigidisce i muscoli
pettorali che, contraendosi,
impediscono di respirare correttamente.
Istintivamente il crocifisso fa leva sui
piedi per alzarsi
di qualche centimetro e respirare, per
poi ricadere,
sopraffatto dal dolore dei piedi
trafitti.
Una tortura inaudita.
In quel momento, mentre è inchiodato e
innalzato,
Gesù pronuncia la frase più forte
dell’intera passione:
“Padre perdonali, non sanno
quello che fanno”.
Non solo li perdona; li giustifica,
anche.
Non è vero; sanno benissimo quello che
fanno, ma il
Signore sovrabbonda di grazia, è capace
di capire
le ragioni (malvage) dei suoi assassini.
Gesù perdona chi lo sta uccidendo,
come ha chiesto di fare ai suoi
discepoli.
Ama i suoi nemici.
Questa è la misura senza misura
dell’amore di Dio.
È difficile perdonare, difficile
perdonarsi.
Non si può dimenticare; il perdono non è
un’amnesia.
E il perdono non riguarda l’emozione, ma
la volontà;
possiamo perdonare ma restare turbati
quando
incontriamo chi ci ha fatto del male.
E non si perdona perché migliori, o
perché l’altro cambi
con il nostro perdono; si perdona perché figli
del
Padre che fa piovere sopra i giusti e i
malvagi.
Perdoniamo perché noi abbiamo bisogno di
perdonare,
non perché l’altro si meriti il perdono.
Ed è meglio perdonare come si riesce,
senza aspettare un perdono perfetto.
Provo disagio quando alcuni cronisti si
avvicinano ai
genitori di una vittima e parlano di
perdonare; come
è anche solo immaginabile pensare di perdonare
l’omicida di tuo figlio il giorno dopo il
funerale!
Ci vogliono anni per maturare la
decisione di andare oltre,
di augurare a chi ti ha ferito non il
male, ma la conversione.
Anni, eccetto che per Gesù, che ha già
maturato il perdono.
Dio perdona sempre, senza porre
condizioni,
sperando nella conversione di chi
perdona.
LA TUNICA!
Dev’essere un particolare importante se
tutti ne parlano.
Gesù viene spogliato delle vesti, ovvio.
Perché dirlo, allora?
E perché con così tanta insistenza?
Probabilmente gli evangelisti indugiano
sul particolare
della divisione delle vesti perché
colpiti dal fatto che un
salmo, il ventidue, ne parla.
O forse, per sottolineare il disprezzo
dei soldati
che prendono la veste, intrisa di sangue,
inutilizzabile, per stracciarla in
quattro parti.
Giovanni il teologo, ovviamente, non si
accontenta
di questa spiegazione e vuole
approfondirla.
Sono due le vesti, quindi; una tunica
preziosa, di qualità,
tessuta tutta d’un pezzo, e un mantello,
che viene fatto a pezzi dai soldati.
La tunica resta intatta.
Che significa?
I Padri della Chiesa hanno visto in
questa tunica l’immagine
della Chiesa che non deve essere divisa
per nessuna ragione.
I discepoli corrono il rischio di
stracciare l’unità,
prezioso dono di Cristo morente in croce.
A cosa si riferisce Giovanni?
Forse alle tensioni nate fra la comunità
di Gerusalemme,
legata a Giacomo, più conservatore, e
quella fondata da Saulo?
Non lo sappiamo.
Certo è che il dono prezioso dell’unità, più
e più volte
lacerato nel corso della storia, va
conservato.
In parrocchia, nei movimenti, nella
Diocesi, quando
lasciamo prevalere la divisione, lo
scontro, ricordiamoci
che stiamo lacerando la tunica di Cristo.
SALVA TE STESSO!
Ecco, Gesù è appeso, pende dalla Croce.
Gli evangelisti spostano l’attenzione da
Lui a chi lo
circonda; la folla, i capi, i soldati.
Il luogo della crocifissione è vicino
all’ingresso della città
e la folla numerosa, che affretta il
passo per entrare, visto
il repentino cambiamento del tempo, vede
questi
disgraziati e commenta.
Luca descrive la scena con una rara
efficacia, invitando lo
spettatore, noi, a una sintesi teologica
forte.
Il popolo sta a guardare; è stato
coinvolto, in precedenza,
per spingere Pilato a crocifiggere Gesù.
Gli è stato fatto credere di essere
essenziale,
in realtà il popolo è stato manovrato da
interessi
politici e religiosi e, ora, è inerme e
assiste.
Quanto possiamo essere manipolati!
Per incitare una nazione a scatenare una
guerra, o ad
acquistare un prodotto, o a eleggere un
candidato politico;
il popolo, la “gente”, come si dice oggi,
è coinvolta solo
se serve e, quasi sempre, è usata per
raggiungere finalità
personali e private, non il bene comune.
Il discepolo, invece, non fa parte di una
folla, ma di una Chiesa,
un popolo di radunati-da-Dio, di
convocati, chiamati a essere
protagonisti della storia di Dio, a fare
gli attori, non le comparse.
Forse pochi lo sanno che, alla domenica
quando andiamo
ad assistere alla Santa Messa, siamo noi
i protagonisti,
il celebrante all’inizio della
celebrazione dell’Eucaristia
ci chiede di poterlo fare, ci chiede il
nostro consenso,
siamo noi che celebriamo la santa Messa e
non lo sappiamo,
lui la presiede, ma i protagonisti siamo
noi.
Quanta grazia!
La folla è stata usata; ora assiste alle
conseguenze
della propria barbarie, inerme e spenta.
Tutti i presenti sono d’accordo.
I capi del popolo giudaico, i soldati
romani, il ladro; per
mostrare di essere il Cristo, Gesù deve
salvare se stesso.
Per dimostrare di essere Dio, Gesù deve
fare l’egoista.
È giusto; Dio non è forse il sommo
egoista bastante a se stesso?
Il totalmente realizzato, il compiuto e
l’inarrivabile?
Allora, per dimostrare di essere il
Figlio di Dio,
Gesù deve salvare se stesso!
No, invece, Gesù non salverà
sé. Salva me.
La sconcertante novità del cristianesimo
è la scoperta
di un Dio che vive in relazione
all’altro, che non è il motore
immobile, ma che è Trinità, comunione,
relazione,
festa e famiglia.
Gesù non salva se stesso; salva
l’umanità,
donando se stesso.
E ci apre una prospettiva sconosciuta e
inattesa
della vera identità di Dio.
Matteo è meno raffinato, ma altrettanto
efficace.
La folla, i sacerdoti, i ladroni,
sbeffeggiano Gesù, lo ridicolizzano.
Non ha potenza, non ha efficacia la sua
profezia, non è
capace nemmeno di salvarsi, altro che
distruggere il tempio!
A Gesù è proposta una specie di
compromesso; non
sono bastati i tanti miracoli compiuti,
le parole, i gesti.
Deve ancora compiere un miracolo, il più
eclatante;
scendere dalla croce: “Il Cristo, il Re d’Israele, scenderà
ora dalla croce, affinchè
vediamo e crediamo”
(Marco 15,32).
A quel punto, certo, tutti si
convertiranno.
Per convertirsi, la folla chiede a Gesù
di evitare la croce.
Buffo, potevano evitargliela loro, la
croce.
Invece lo hanno crocifisso per vedere se
scende dalla croce.
Contraddizione della stupidità
umana!
Gesù non ama la croce, non l’ha
desiderata,
l’ha assunta, non ha potuto evitarla.
Come le tante persone che si trovano
inchiodate a una croce
senza scegliere, senza poter fuggire, (una malattia, un lutto,
una depressione), Gesù non scende, non
fugge, non vuole
sconti, accetta fino in fondo di
condividere il destino degli
sconfitti e degli ultimi, dei perdenti di
tutti i tempi.
Al condannato veniva appeso al collo una
tavola in legno,
riportante la ragione della condanna a
morte.
Nel caso di Gesù questo cartello è posto
sopra la croce,
dal che gli storici deducono che la croce
fosse nella forma che
tutti conosciamo, non a “T” detto Tau,
come abitualmente era.
Giovanni, però, fa una precisazione
riguardante il titolo
della condanna.
È l’ultimo schiaffo di Pilato al
Sinedrio, una spietata burla
nei confronti dei sacerdoti; hanno voluto
che il Nazareno
fosse condannato a morte per il reato di
lesa maestà, visto
che si era spacciato per Messia, cioè per
il re dei giudei.
Bene; che tutti sappiano, allora, che
Gesù è, appunto
il re dei giudei.
Il cartello appeso sopra la croce è
un’offesa ai giudei
che passano; ma come, quel poveraccio è
il loro re?
E Roma mette in croce il loro re?
A quel punto Caifa capisce la gaffe che
ha fatto,
va da Pilato per convincerlo a togliere
il titolo.
Come il gatto fa con il topo, Pilato,
ovviamente, si rifiuta.
La scritta è in tre lingue, per essere
ben letta da tutti
(aramaico, latino e greco).
Giovanni, ancora una volta, osa svelare
la trama che ha
fatto comprendere gli eventi agli uomini;
davvero Gesù
è il Re dei giudei, e questa regalità,
ora, sarà riconosciuta
da tutti i popoli.
Ecco il nostro Re, discepoli, il nostro
sovrano; invece del
trono, ha una croce, non indossa una
corona preziosa,
ma una fatta di spine, non uno scettro, ma
una canna
con cui è stato percosso.
Ecco il nostro Re; talmente sfigurato e
irriconoscibile
da necessitare di un cartello che lo
identifichi.
Un perdente. Un folle.
Uno che ha bisogno di tutto.
Chiedo; lo vogliamo davvero un Dio così?
Sul serio? Ne dubito!
Noi che cerchiamo un Dio che ci appoggi, che
ci sostenga,
potente, efficace, interventista, lo
vogliamo davvero
un Dio così?
Pensiamoci bene, e riflettiamo su quello
che
andiamo a leggere.
IL BUON LADRONE!
È una delle figure più simpatiche e
conosciute dell’intero
Vangelo; uno dei condannati assieme a
Gesù, secondo Luca,
invece di insultarlo e di chiedere un
aiuto, elemosina un ricordo.
Una pagina struggente, straordinariamente,
tenerissima.
Chiama Gesù per nome, senza aggiungere
titoli.
È l’unico caso in tutti i vangeli in cui
si usa il
nome di Gesù senza alcuna aggiunta.
È l’esperienza nuda e cruda dell’umanità
del Signore;
sulla croce Egli si è spogliato di ogni
veste regale,
di ogni titolo, di ogni ruolo.
La sofferenza è un’esperienza che annulla
le differenze.
E il ladro lo riconosce come tale, come
uomo che soffre.
Non chiede salvezza; le sue mani grondano
sangue,
non vuole una soluzione all’ultimo
secondo.
È turbato il ladro, perché vede un
innocente che muore!
Ha un alto senso della giustizia; tutto
sommato lui si
merita quella fine, quel Nazareno no.
Zittisce il compagno che insulta Gesù e gli chiede un ricordo.
Abbiamo paura di essere dimenticati, di
non contare, di passare
nella nostra vita terrena senza lasciare
alcuna traccia.
La Bibbia ci rassicura.
Sion diceva: “Il
Signore mi ha abbandonato,
il Signore mi ha dimenticato.
Forse che la donna si dimentica
del suo lattante,
cessa dall’aver compassione del
figlio delle sue viscere?
Anche se esse si
dimenticassero, io non ti dimenticherò.
Ecco, ti ho descritta sulle
palme delle mie mani,
le tue mura sono sempre al mio
cospetto” (Isaia 49,14-16).
Il ladro, come ogni uomo, chiede un
ricordo.
Accetta, Gesù, e gli promette di più; gli
promette il paradiso.
Secondo la tradizione, il ladro si chiama
Disma,
e nell’ultimo istante della sua vita è
riuscito a scroccare la
grazia del perdono al Signore, ecco la
misericordia di Dio.
Il paradiso, nel Vangelo, è la
beatitudine dell’esperienza
di Dio, il farne esperienza.
Il ladro, il reietto, il peccatore, il
violento,
sperimenta la presenza di Dio.
È la misericordia che dilaga, nel Vangelo
di Luca;
il ladro sperimenta in anticipo la
salvezza.
Perché? Perché ha creduto.
Dio desidera la nostra salvezza, quando
lo capiremo?
Desidera il nostro bene, senza porre
condizioni.
Del ladro non abbiamo conservato il nome,
ma solo
quell’aggettivo, buono, che ne delinea il
carattere.
Buon ladrone, nel senso di ladrone con il
cuore
compassionevole.
Ma buon ladrone anche nel senso di abile.
Gli è riuscito il colpo più spettacolare
della sua carriera;
ha rubato il paradiso.
LA MADRE.
I minuti passano, poi le ore.
I lamenti dei condannati diminuiscono,
la loro voce si affievolisce.
Non hanno nemmeno la forza di lamentarsi,
il dolore
ormai li stordisce, tutto il corpo si
rattrappisce
intorno a quei chiodi da cui pendono.
Anche la folla si dirada; si tratta di
entrare in città per
preparare la pasqua, mentre nel tempio,
da qualche ora,
si sacrificano gli agnelli della pasqua.
I sacerdoti se ne sono andati, lasciando
qualcuno a vedere
l’epilogo, per preparare la solenne
liturgia nel tempio.
I soldati romani allentano la guardia.
Ad alcune persone, i famigliari più
stretti,
si permette di avvicinarsi ai condannati.
È questione di poche ore e tutto sarà
finito.
Fra i presenti, i pochi presenti, c’è
l’autore del quarto
Vangelo, il Giovanni forse sacerdote che
ha ospitato
Gesù durante la Cena.
Non ha da temere ripercussioni come gli
altri discepoli
della prima ora che sono fuggiti a gambe
levate;
dev’essere un personaggio importante.
Ha assistito al processo, ha seguito Gesù
al Golgota.
Ora sappiamo che, insieme a lui, c’è Maria, la Madre del Signore.
Quando è giunta a Gerusalemme?
Non lo sappiamo.
Sappiamo che, nel momento più terribile,
è presente.
È difficile assistere alla morte di una
persona che si ama.
Tragico, vedere la morte di un figlio.
Insostenibile, vedere la morte orribile
di Gesù.
Maria è presente, sotto la croce, insieme
ad alcune altre donne.
Nessun angelo a cantare la gloria di Dio,
ora,
nessuna rassicurante apparizione.
Eccola lì, la promessa di Dio.
Eccolo il Salvatore.
L’aveva accolto con timore e gioia, nel
suo grembo,
molti anni prima.
Gli aveva insegnato a camminare, a
parlare, a pregare.
Lo aveva visto crescere, farsi uomo.
Aveva atteso con ansia la sua partenza,
chiedendosi,
davanti al suo temporeggiare, se non si
fosse sbagliata. Poi.
Arrivano le prime notizie da Cafarnao, da
Cana, da Magdala.
Notizie portate in paese dai mercanti,
che parlano del falegname divenuto
profeta.
Poi Gerusalemme, le prime difficoltà,
l’ostilità aperta dei sadducei e dei
farisei.
Infine la notizia, giunta chissà come a
Nazaret,
dell’imminente arresto di Gesù.
Eccola, la Madre.
Dov’è, ora, la promessa di Dio? Dove?
Si era forse illusa?
Si era sognata una chiamata inesistente?
Scrive Giovanni. Le donne stanno.
Meglio; dimorano irremovibili, tengono
duro, non cedono.
Maria, la Madre, dimora nella fede, non
cede.
In quel momento, tutto il Regno di Dio è
rappresentato
da quelle poche donne radunate intorno
alla Madre.
C’è bisogno di donne, quando serve la
costanza irremovibile.
Gesù, con un soffio di fiato, vede la
Madre e Giovanni,
e gliela affida.
Donna, dice.
Come a Cana, prima del miracolo, la
chiama donna.
Non è più sua Madre, da tempo l’ha
donata,
come Lei ha donato Lui.
Si sono fatti dono reciproco.
Come dovrebbe essere in ogni relazione
d’amore.
Secondo la tradizione Giovanni, da quel
giorno,
prese e portò con sé Maria.
Da quel giorno, ogni discepolo del
Signore sa che può prendere Maria
con sé, come discreta presenza nel suo
percorso di vita interiore.
Il vento del mare sta portando nubi che
si fanno minacciose,
cariche di pioggia.
La gente che entra in città affretta il
passo per non farsi
sorprendere dal temporale imminente.
Tutti gli evangelisti annotano questo
repentino cambio di tempo.
Dall’ora sesta fino all’ora
nona si fece buio
su tutta la terra (Matteo
27,45).
Il cielo si scurisce, come se anche la
natura
partecipasse all’agonia di Dio.
Tutto è nuvoloso e buio, come il cuore
delle persone
che hanno partecipato alla crocifissione.
Si fa buio, da mezzogiorno fino alle tre
del pomeriggio.
Quell’annotazione temporale è colma di
speranza;
ha un limite la tenebra, non può
albergare
per sempre, nei nostri cuori.
Da mezzogiorno alle tre, ecco i confini
entro
cui può abitare la disperazione, non un
minuto di più.
Fratello che soffri, sorella dilaniata
dalla solitudine e dalla
depressione, il tuo dolore ha un confine,
non ti disperare.
Il silenzio è irreale, i condannati sono
immobili,
respirano a fatica, non dicono una
parola.
Anche chi piange, ormai, ha esaurito le
lacrime.
I caldi colori della Giudea si sono
stinti
in un grigio sempre più scuro.
Gesù, con un soffio di voce, parla.
Ha sete.
Sete di amore, di pace, di giustizia,
sete della nostra fede.
Solo sete.
Il nostro è un Dio assetato d’amore, come
noi, sperimenta
il limite di un desiderio quasi sempre
insoddisfatto, di uno
slancio arrestato, di un anelito senza
soddisfazione.
Ha sete, come ha avuto sete aspettando
che
la fede della Samaritana lo dissetasse (Giovanni 4,4).
Ha sete colui che può dissetare chi cerca
la felicità e il bene,
come aveva detto al tempio.
L’ultimo giorno, quello solenne della
festa, Gesù stava
in
piedi e proclamava a gran voce: “Se qualcuno ha sete,
venga a me e beva.
Colui che crede in me, come
disse la Scrittura;
dal suo ventre sgorgheranno
fiumi di acqua viva”.
Ha sete della mia fede, della nostra
fede.
LE ULTIME PAROLE.
Sono quattro versioni diverse, molto
diverse, forse troppo.
Quali parole ha pronunciato Gesù sulla
croce?
Quali sono state le sue ultime parole?
Ogni evangelista dà la sua versione.
Forse Gesù le ha pronunciate in tempi
diversi, non lo sappiamo.
Ogni evangelista, però, ha ritenuto
quelle che più lo hanno colpito.
Marco è diretto e asciutto, come al suo
solito:
“Ma Gesù, emesso un grande
grido, spirò”
(Marco 15,37).
Gesù grida.
Il suo è un ultimo agghiacciante grido di
dolore, che svela
la sua partecipazione assoluta al destino
degli uomini.
Un grido che è un disperato soffio di
vita,
impressionante, messo in bocca a Dio.
Ecco, Dio ora conosce tutto, anche il
nulla.
Come se sapesse tutto del niente, e
niente del tutto
che ha creato.
Restiamo interdetti, senza parole,
davanti alla misura di questo dono senza
misura.
Il nostro ragionamento entra in corto
circuito,
davanti all’ampiezza di questo mistero.
Dio conosce la disperazione, perché
nessun
uomo possa sentirsi abbandonato.
Ha preso l’ultimo posto, perché nessuno
possa sentirsi ultimo.
Matteo approfondisce e dilata la
riflessione.
Gesù cita un salmo, il ventidue. Lo
grida.
A volte anche un grido diventa preghiera.
Gesù conosce i salmi, lo hanno
accompagnato nella sua
crescita interiore, nella presa di
consapevolezza della sua identità.
Li ha ascoltati, cantati come ninna nanna
dalla Madre, quand’era
piccolo, li ha recitati nella sinagoga di
Nazareth, in età adulta.
Ha pregato con la Parola stessa di Dio,
ha fatto
scaturire dal di dentro la Parola che
lungamente aveva
assaporato durante la meditazione
personale.
Prega, Gesù, le sue ultime parole sono un
grido di angoscia,
una richiesta d’aiuto.
Un’accusa verso Dio, ma detta con le
Parole stesse di Dio.
Dio non ha bisogno di applausi o di
carezze,
o di timori reverenziali.
Accetta ogni parola, ogni grido, ogni
bestemmia,
se esprimono verità e richiesta di aiuto.
Gesù muore pregando.
È un’accusa, la sua, una disperata
richiesta di aiuto,
ma è usata come una preghiera.
Chiede a Dio perché non c’è, perché non
si fa presente.
Vorrei fosse così anche per me.
Vorrei poter dire, come ultima parola,
quell’Abbà,
che ha così lungamente riscaldato il mio
cuore bucato.
E la preghiera è un interrogativo; Dio si
chiede perché
Dio l’abbia abbandonato.
Come se, per un attimo Dio diventasse
incredulo.
Incredulo per quanta solitudine l’uomo
può sperimentare,
solitudine che Dio, per sempre, assume.
Da ora, e per sempre, nessun Cristo
morirà disperato.
Nessuno può più perdersi, ora che Dio si
è perso.
La folla pensa che Gesù invochi Elia.
Sarebbe un bel finale, degno di un film
americano;
Gesù che scende dalla croce per mezzo di
Elia.
È già venuto Elia, ma anche il Battista,
e hanno
fatto fuori anche lui, non siamo
ridicoli.
Luca, che si è informato, sceglie
un’altra delle
affermazioni di Gesù.
E Gesù, gridando a gran voce: “Padre, nelle tue mani
raccomando il mio spirito” (Luca 23,46).
Luca conferma che Gesù muore pregando.
Si affida, si dona, sa bene in chi ha
posto la sua fiducia
e il suo destino.
Lo dice ad alta voce, vuole che tutti
sappiano che fra
Lui e il Padre c’è un legame di fiducia
totale, di dono di sé.
Ma è Giovanni, al solito, a dare un colpo
d’ali,
forse perché era sotto la croce.
L’ultima parola di Cristo in croce non è
un grido,
né un salmo di disperazione o uno di
fiducia.
È l’affermazione di una missione
compiuta,
quella affidatagli dal Padre.
Quando ebbe preso l’aceto, Gesù disse:
“Tutto è compiuto” (Giovanni 19,30).
Ciò che andava fatto è stato fatto, ora
sta al Padre continuare.
Abbiamo tutti una missione da compiere, una
missione
d’amore che Dio ci affida al momento
della nostra nascita,
un tesoro nascosto da scoprire e da
condividere.
Non pensate subito a grandi opere, o a
scoperte straordinarie;
a volte sono piccole le cose che danno
senso alla vita
e che salvano il mondo.
Ecco; Gesù ora, ha terminato
il suo percorso.
Ciò che poteva fare è stato
fatto.
È tempo di morire. Finalmente!
SPIRÒ.
Ha lottato duramente per parecchie ore,
ma il suo corpo è debilitato, prostrato,
non vuole più combattere.
La terribile macchina della croce ha
sortito il suo effetto;
la respirazione è affannosa, i polmoni
sono stretti
dai muscoli irrigiditi, le gambe non
riescono più a sollevarsi
per placare la fame d’aria, il cuore
cede, Gesù muore.
Ma Gesù emise di nuovo un forte grido
ed esalò lo spirito (Matteo 27,50).
Muore; restituisce lo spirito che ci
tiene in vita,
quel soffio che ci rende partecipi di
Dio.
Ora esce, esala.
Giovanni dice; lo
rende, lo dona.
Lo Spirito, che è dono di Dio, ci è
donato sulla croce,
ultimo dono di Gesù ai credenti.
Anche morendo, Gesù compie un’opera di
vita,
una nuova creazione.
La sua non è una fine, ma un nuovo cosmo
che sta
per prendere vita.
Gesù è morto.
Nel tempio, decine di sacerdoti, a ritmo
sostenuto,
sgozzano decine di migliaia di agnelli, per
offrirli al
Signore e restituirli ai proprietari che
li avrebbero cotti
al fuoco di brace e mangiati insieme alle
erbe amare, un
agnello per famiglia, da consumare tutto,
senza avanzarne.
Anche l’Agnello di Dio, ora, pende, senza
vita.
Sono Marco e Matteo che riferiscono il
particolare,
all’apparenza insignificante.
Allora il velo del tempio si squarciò in
due,
dall’alto fino al basso (Marco 15,38).
Il tempio era un complesso sistema di
edifici, infilati
l’uno dentro l’altro come un gioco di
scatole cinesi.
Al centro, nel luogo più inaccessibile, troneggiava
il
Santo dei Santi, un alto edificio con una
sola apertura,
circondato da una serie di cortili e di
alte mura.
Al suo interno si trovavano due ambienti;
un atrio e
il Santo vero e proprio, che al tempo di
Salomone,
custodiva l’arca dell’alleanza contenente
le tavole della
legge, il bastone di Aronne e un po’ di
manna.
Da tempo, tutto ciò era stato depredato,
e il Santo dei Santi
era vuoto, con grande stupore dei romani
che lo violarono.
Ma era comunque il luogo inaccessibile,
il luogo della gloria
di Dio, abitato dalla sua presenza.
Luogo cui poteva accedere solo il sommo
sacerdote, una
volta all’anno, per versare il sangue del
sacrificio,
il giorno dell’espiazione.
Quel luogo era diviso dall’atrio da un
pesante tendaggio,
lungo dal soffitto al pavimento.
Quel velo, annotano gli evangelisti, si
strappò, dall’alto
in basso, da Dio all’uomo, dal mistero
all’evidenza.
Dio non è più inaccessibile, è osteso,
evidente, appeso.
Dio non è più misterioso, non dimora in
un luogo inaccessibile,
non è più altrove, è qui, raggiungibile,
incontrabile,
lo possiamo vedere, sfiorare,
accarezzare.
Il capovolgimento è compiuto; il sommo
sacerdote volge lo
sguardo al Santuario, al Santo dei Santi,
definitivamente vuoto.
Così come la nube della presenza di Dio
abbandonò il tempio
per seguire il popolo deportato in
esilio, ora, e per sempre,
Dio abbandona il tempio di pietra per
condividere la morte dei malfattori.
La croce, ora, è il tempio.
Quell’atroce strumento di tortura e di
morte, ora,
è il luogo della gloria di Dio.
Lo diventa perché altare della manifestazione,
della misura dell’amore di Dio, lo
diventa perché
ostende e realizza pienamente l’assoluto
di Dio.
Tutto è compiuto.
Gesù ha dato tutto, goccia dopo goccia,
stilla dopo stilla. Tutto!
Chi ha assistito esprime sentimenti diversi.
I sadducei, di feroce soddisfazione, certi
di avere fatto
una cosa giusta.
I discepoli, di silenziosa disperazione.
Alcuni presenti, di turbamento e di
conversione. E noi?
Il primo a testimoniare stupore è il
centurione romano.
Un ufficiale abituato alla violenza, che
serviva Roma
anche in quei frangenti così spietati e
sgradevoli.
Non sappiamo nulla di lui; ha gestito il
picchetto di
soldati di complemento per la
crocifissione,
ha osservato l’agonia dei condannati.
Marco ci dice che si è posto di fronte a
Gesù, lo ha
lungamente osservato, è rimasto turbato,
scosso.
Ne ha visti morire, di malfattori.
Li ha visti urlare come delle bestie
scannate, contorcersi,
nudi, intorno ai chiodi insanguinati, li
ha sentiti piangere,
bestemmiare, singhiozzare come dei
bambini.
Ha fatto l’abitudine a quello spettacolo
atroce,
a quella morte oscena.
Gesù no, non ha inveito, ha pronunciato
parole di perdono,
è morto come mai egli ha visto morire un
crocifisso.
E il centurione che gli stava di fronte, vistolo
spirare
gridando a quel modo, esclamò: “Davvero quest’uomo
era Figlio di Dio!” (Matteo 15,39).
La sua professione di fede è la
professione
di fede della comunità di Marco.
Siamo chiamati a riconoscere in Gesù il
Figlio
di Dio non quando le cose vanno bene, ma
ora,
quando la divinità è nascosta,
mascherata, offuscata.
Siamo chiamati a credere che quel
poveraccio
sfigurato e spezzato è il creatore del
mondo.
È Dio, non perché perdente, ma per come è
morto,
donandosi fino in fondo, vivendo ciò che
ha detto
nei brevi anni della sua vita pubblica.
Siamo tutti bravi a parlare, tutti santi
e moralisti,
quando si tratta di dare consigli.
Ma quando siamo messi a dura prova, allora
esce fuori
il meglio o il peggio di noi stessi.
Gesù testimonia che è esattamente ciò che
ha detto di essere.
La sua è una morte coerente, esemplare,
inattesa, luminosa.
È poco probabile che il centurione,
abbia pronunciato quelle esatte parole.
Con maggior precisione Luca riporta.
Il centurione, vedendo l’accaduto,
glorificava Dio:
“Certamente quest’uomo era
giusto” (Luca 23,47).
La morte del giusto, il clima di perdono
che è riuscito a
portare in quell’inferno, dice Luca,
rendono gloria a Dio.
Il pagano romano invoca Dio e lo pensa
presente,
vedendo quella morte.
I nostri gesti, compiuti con giustizia,
la nostra capacità di
perdono, la nostra benevolenza, rendono
gloria a Dio,
avvicinano le persone al mistero della
redenzione.
La nostra vita di fede illumina anche chi
ci sta accanto,
se vissuta con autenticità e passione.
La folla manipolata, quella che, all’ingresso
di Gesù a
Gerusalemme gridava Osanna; quella che,
sospinta dai
sadducei e dai capi religiosi ha richiesto
la crocifissione
di Gesù, quella che, silenziosa e muta,
assiste alla morte
del profeta, ora reagisce in maniera
diversa.
Ha preso consapevolezza di sé, è tornata
sui propri passi,
non è più condotta da altri.
La folla, ora, è meditabonda e
silenziosa.
Anche tutti quelli che erano
convenuti per questo spettacolo,
davanti a questi fatti se ne
tornano a casa battendosi il petto.
Hanno partecipato ad uno spettacolo, una
manifestazione.
Come la folla radunata dall’imperatore al
Colosseo assisteva
ai giochi, ai massacri fra gladiatori,
alle lotte fra uomini
e belve; un’orgia di violenza, di sangue,
di follia.
Ma questo spettacolo è stato inatteso,
diverso, completamente diverso.
Meditando il mistero della croce, anche
noi possiamo
tornare sui nostri passi percuotendoci il
petto,
cioè rianimando il nostro cuore,
scuotendolo,
allargandolo alla misura di Dio.
Tutti noi possiamo assistere sulla via
Crucis,
allo spettacolo di un Dio che muore per
amore.
E convertirci. Io per primo.
Sia Marco sia Luca annotano un
particolare sui discepoli;
tutti i suoi amici e le donne che lo
avevano seguito
fin dalla Galilea se ne stavano lontano,
osservando tutto ciò che accadeva (Luca 23,49).
Non tutti sono fuggiti.
Alcuni, anche se da lontano, hanno
continuato a seguire Gesù.
Nel momento della prova può succedere di
allontanarsi
dal Signore, di essere lontani.
L’importante è non perdere di vista il
Signore,
seguirlo, anche solo con la coda
dell’occhio.
Per sapere dove l’hanno messo e tornare
da Lui,
anche se lo consideriamo, ormai, un
cadavere.
Fratello in crisi, che fatichi a credere,
che sei stato masticato,
come gli apostoli, segui il Signore,
anche se da lontano,
non andartene.
Matteo esagera, si allarga, e sa di
farlo.
State sereni; la sua è un’annotazione
teologica, non storica.
Richiama i segni degli ultimi tempi, della
manifestazione
di Dio al popolo di Israele, e allora, come
fanno i pescatori
che raccontano della loro pesca, esagera
un po’.
Il linguaggio che usa ha a che fare con i
profeti apocalittici,
è come se Matteo dicesse; davvero il
Messia è venuto, e si
rivela morendo in croce, anche il cosmo
riconosce la sua presenza.
Mi piace, calcare la mano, meditando la
passione,
anche a noi può succedere di subire un
terremoto interiore,
di veder spaccare in noi la pietra che ci
impedisce di gioire,
di uscire dai sepolcri in cui ci siamo
sepolti,
di lasciar venir fuori il santo che c’è
in ciascuno di noi.
La presenza del Signore, credetemi, è una
potenza,
una forza che costruisce, che scuote,
che rianima, che sbalordisce.
Ciò che Matteo descrive come evento
messianico è evento
che può scatenarsi nel discepolo che
assiste allo spettacolo,
guardando di fronte Gesù che muore, come
il centurione.
L’ora del tramonto si avvicina,
e con esso l’inizio solenne della festa
di pasqua.
Non si possono lasciare i condannati in
croce,
la cosa contravviene alla legge (Deuteronomio 21,22-23),
bisogna accelerare la morte.
Il metodo è semplice e crudele; con un
colpo di bastone
alla tibia, i soldati frantumano le ossa
delle gambe,
impedendo al condannato di rialzarsi a
prendere aria.
La morte per asfissia sopraggiunge in
pochi minuti.
Giovanni descrive minuziosamente
l’orrenda procedura.
Arrivati da Gesù, i soldati vedono che è
senza vita.
Per sicurezza, un soldato gli assesta un
colpo di grazia,
un colpo di lancia dato quasi in
orizzontale, sotto il costato,
a destra, un colpo che, normalmente,
trapassava il cuore.
Molti studiosi, quasi tutti
anatomopatologi,
hanno cercato di interpretare il racconto
di Giovanni,
per capire cosa sia successo.
Gesù, morto, ha iniziato il processo di
coagulazione del
sangue, che divide la parte liquida da
quella solida.
Il soldato colpisce una zona di accumulo
del sangue,
forse il pericardio, o la pleura, che si
svuota come un
palloncino riempito d’acqua, lasciando
vedere il siero
(l’acqua) e la parte ematica (il sangue).
Giovanni lascia intendere che quella
divisione,
sangue e acqua, ha una rilevanza,
richiama la salvezza
e la redenzione, la croce e il battesimo.
La solennità con cui Giovanni racconta
l’intera scena
è un invito ad andare al di là degli
eventi; quella a cui
abbiamo assistito non è la morte di un
poveraccio
ucciso per interessi politici e
religiosi, ma il compimento
delle profezie riguardanti il Messia.
Il particolare della tunica, delle ossa
non spezzate e della
fuoriuscita del sangue e dell’acqua sono,
per Giovanni,
la manifestazione della profezia
riguardante il Messia.
Solo chi conosce la Scrittura e ha il
cuore aperto al
soffio dello Spirito, sembra dire
Giovanni,
può accorgersi di chi sia veramente
quell’uomo trafitto.
Così accade anche oggi; solo chi ha il
coraggio di
seguire Gesù nelle sue ultime ore,
senza fuggire come il giovinetto
scandalizzato nell’orto,
o come i discepoli, ma dimorando sotto la
croce,
può capire chi è veramente colui che
pende dalla croce.
E inorridire. O cadere in ginocchio.
Ecco tutto è compiuto.
Dio si è definitivamente donato.
Mi immagino il volto di Nicodemo e di
Giuseppe di Arimatea
che sorreggono il cadavere, uno dal capo,
l’altro dai piedi; dietro al Cristo, le
statue di Giovanni,
della Maddalena, di Maria e di una
discepola
esprimono disorientamento e dolore.
Cristo no, è il centro immobile della
composizione.
Tutto è compiuto.
Mentre scrivo socchiudo gli occhi e
ripenso alla scena,
mi ritrovo al Calvario.
Sento l’odore del temporale in arrivo e
del sangue.
La folla se n’è andata in tutta fretta
per non prendersi
l’acquazzone, i soldati calano senza
riguardo i cadaveri
per gettarli nella fossa comune.
Gesù no, passa prima dalle braccia della
Madre!
La Madre strige il Figlio esamine.
Una scena fortissima, straziante,
intensa.
Quanto silenzio, quanto dolore, quanta
forza!
I romani avevano l’orribile consuetudine
di lasciare i
cadaveri appesi alla croce, in preda agli
animali e ai corvi,
soprattutto quelli condannati per lesa
maestà; un terribile
monito per tutti i sudditi.
La concessione del corpo ai famigliari
era un’eccezione,
fatta per manifestare la generosità di
Roma; troppo buoni,
perché: “In Cina, i famigliari del
condannato a morte devono
pagare il prezzo della pallottola con cui
si procede
all’esecuzione, se vogliono il corpo….”.
In Giudea, però, le cose funzionavano
diversamente;
non c’era nessuna intenzione di forzare
la mano, di
accentuare i dissidi, perciò i corpi
erano restituiti ai famigliari
che ne facevano richiesta, tanto più in
quella vigilia di pasqua.
Il tutta fretta, perciò, i famigliari,
aiutati dai soldati,
devono schiodare i piedi del condannato,
deporlo in un lenzuolo e provvedere alla
sepoltura.
Una procedura terribile; il corpo del
condannato è irrigidito
dalla contrazione tetanica dei muscoli, e
il corpo si può
trasportare come se fosse irrigidito, in
catalessi.
Una volta calato con il patibolo, il
cadavere è portato
nei pressi della tomba, dove gli sono
schiodati i polsi.
La presenza, in una tomba ritrovata a
Gerusalemme,
di uno scheletro con il chiodo dei piedi
ancora conficcato
nelle ossa, la dice lunga sulla
delicatezza di tale procedura.
Marco, cioè Pietro, ( sappiamo che marco ha scritto
il suo Vangelo ascoltando
quello che gli diceva Pietro),
ci fa un resoconto dettagliato della
sepoltura di Gesù.
È Giuseppe d’Arimatea a trovare il
coraggio.
È un influente membro del Sinedrio,
insieme a Nicodemo.
Non è riuscito a salvare Gesù dalla
condanna e ora vuole,
almeno, dargli una sepoltura degna.
Entra da Pilato, piuttosto impressionato
che un membro
del Sinedrio contragga l’impurità alla
vigilia della pasqua
entrando da un pagano, pur non essendo un
famigliare
del condannato, e chiede il corpo del
Nazareno.
Pilato è stupito della velocità della morte
di Gesù,
e concede la sepoltura privata.
Giuseppe compra un lenzuolo, una sindone
di prezioso lino,
e fa deporre Gesù in una tomba adiacente
al Golgota,
la tomba che ha fatto preparare per sé,
una tomba preziosa,
di un uomo importante, scavata nella
roccia e
protetta da una pesante chiusura in
pietra.
Come quella che chiude il
nostro cuore!
Contrae l’impurità per la seconda volta,
toccando un cadavere.
Non avrà più tempo per purificarsi.
Non celebrerà la pasqua.
Non ne ha neppure voglia, ora che il suo
cuore è gonfio di dolore.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe
d’Arimatea;
fra pochi giorni potrà celebrare una
Pasqua nuova.
E rivedere il suo Maestro.
Ci sono dei momenti, nella vita, in cui
il nostro cuore
è impietrito, insensibile, raggelato, in
cui non abbiamo
più nulla da offrire al Signore, in cui
abbiamo l’impressione
che Dio, nella nostra vita, sia morto e
sepolto; in quei
momenti non ci resta che offrire il
nostro cuore, freddo
come una tomba, e accogliere il Cristo
perché lo riscaldi.
L’ultimo regalo fatto a Gesù è una tomba
scavata nella pietra.
L’ultimo, disperato, straziante gesto di
affetto di un
discepolo che pensava di avere trovato in
Gesù la novità
della fede, la pienezza della vita, il
sorriso di Dio.
Giuseppe non ha potuto salvare il suo
Maestro.
Non i suoi denari, non la sua influenza,
non la sua cultura, l’hanno salvato.
Con il cuore pesante, non gli resta che
offrire la sua tomba.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe;
fra tre giorni gli verrà restituita,
intatta.
Gli lascio un solo suggerimento; è bene
che si guardi in
giro e che trovi un’altra tomba; quella
che ospita
temporaneamente il cadavere di Dio sarà
luogo di culto
e di contraddizione, per millenni.
I romani ricostruendo Gerusalemme rasa al
suolo dalle
truppe di Tito, penseranno bene di
edificare su di essa
un tempio dedicato a Venere, per impedire
ai discepoli
del Nazareno di radunarsi in quel luogo.
La regina Elena, madre dell’imperatore
cristiano Costantino,
farà abbattere il tempio e ritrovare la
tomba,
la cui memoria era stata conservata
preziosamente
per due secoli dalla comunità locale.
Il sepolcro non ha bisogno dello
splendore,
ne della dignità che vorremmo
attribuirgli devotamente.
La tomba che non è riuscita a contenere
Dio,
non ha bisogno delle nostre devozioni.
Ma è lì, coperta di marmi e stoffe, un
piccolo luogo al
centro di una grande cupola pericolante,
a ricordare
a tutti che Dio non è stato sconfitto.
No, la tomba, a Giuseppe d’Arimatea, non
verrà più restituita.
Per quel che gli importa.
Giovanni inserisce nel racconto anche la
presenza di Nicodemo,
un importante rabbì fariseo che cerca
Gesù,
anche se di notte, per non sbilanciarsi
troppo.
Come abbiamo già visto, Nicodemo cercherà
in qualche
modo di proteggere Gesù, di chiedere per
Lui un procedimento giusto, senza
ottenerlo.
Ora che Gesù è morto, Nicodemo non ha più
paura di esporsi,
anche di fronte ai suoi confratelli di
fede e al Sinedrio.
Perde la faccia volentieri,
per testimoniare il suo affetto per il
Maestro.
Venne anche Nicodemo, il quale
già prima era andato
da Lui di notte, portando una
mistura di mirra e di aloe
di circa centro libbre (Giovani 19,39).
Alcuni storici, storcono il naso; non era
affatto abituale,
in Israele, imbalsamare un cadavere e la
quantità
degli unguenti (trenta chili!) è davvero
sproporzionata.
Probabilmente la grande mole di mirra e
aloe servivano
ad evitare temporaneamente la
decomposizione del corpo
di Gesù, essendo degli antisettici
naturali, per poter in
seguito provvedere ai riti di lavaggio e
di purificazione,
impediti dalla fretta della sepoltura.
Come sempre Giovanni è uno storico
affidabile,
pur sovrapponendo gli eventi e la loro
interpretazione.
Da parte mia, ho una sola annotazione da
fare a Nicodemo;
gli onori, ai profeti, è meglio farli da
vivi, che da morti.
Troppe persone si schierano dopo , troppi
profeti sono
riconosciuti come tali dopo la loro morte
(spesso tragica).
Cerchiamo di essere coerenti, per favore.
La pietra è posta dinanzi al sepolcro,
per impedire agli animali di violare il
corpo di Gesù.
Dal tempio arriva il suono di richiamo
che annuncia l’inizio
della festa, tutti rientrano in casa per
accendere le luci di
quel sabato particolare, che coincide con
la festa di pasqua.
Nicodemo e Giuseppe non parteciperanno
alla festa,
probabilmente, essendosi contaminati con
un cadavere.
Così come gli apostoli, fuggiti e
nascosti nelle
campagne attorno alla città.
Non celebrerà la pasqua neppure Giovanni,
rifugiatosi con
la Madre di Gesù, nella città alta, negli
alloggi dei sacerdoti.
Pilato, cenando alla fortezza Antonia, o
al Pretorio,
penserà alla bella soddisfazione presa
con il Sinedrio e
proverà disagio ricordando quel Galileo
un po’ filosofo.
La gente, in casa, canterà la
benedizione, mentre un bambino
porrà la domanda rituale; cosa
festeggiamo oggi?
E il capo famiglia racconterà la fuga dal
faraone
del popolo guidato da Mosè.
Gesù, cadavere, giace nell’oscurità di
una tomba scavata
nella roccia.
Fine della storia, fine dell’illusione,
fine di una brillante carriera di
profeta.
Fine di un sogno.
Fine di un normale movimento religioso
moderno.
Fine!
O forse no.
Il dopo è un’altra storia!
Buon Venerdì Santo.