giovedì 29 marzo 2018

Il buio, la notte e Gesù


Siamo con Gesù nel Getsemani nel buio della notte.
Chiudo gli occhi, prego!
Vedo Gesù, in mezzo agli ulivi, lo sento pregare.
Sto a distanza, come hanno fatto gli apostoli.
È la notte del giovedì santo.
Immagino lo stato d’animo del Rabbì, non è difficile; basta aprire il cuore.
Sono turbato, emozionato e commosso.
La cena si è conclusa.
Gesù, con i suoi, discende la scalinata verso il Cedron, attraversa il fiume in
secca, costeggiando gruppi di pellegrini che bivaccano in attesa della pasqua,
e si dirige verso un podere di proprietà di un conoscente, o parente.
È abituale, questa passeggiata; Gesù fa questo tragitto quando va dai suoi amici
a Betania e, fanno intendere gli evangelisti, quando, spesso, si ritira in questo
luogo solitario, prospiacente il tempio, per pregare.
Ma il suo stato d’animo, oggi, è completamente diverso.
Non è la prima volta che Gesù si ritira a pregare, la sua vita di preghiera è ben
testimoniata dai vangeli, in particolare da quello di Luca.
Gesù prende con se Pietro, Giacomo e Giovanni, i discepoli della prima ora,
quelli che lo hanno conosciuto all’inizio, quando Gesù era ospitato a Cafarnao,
sul lago, nella casa di Cefa.
Nei momenti più intensi e particolari, o in quelli che richiedono un numero
più ristretto di testimoni rispetto al gruppo dei Dodici, Gesù vuole proprio
loro tre accanto.
Nel Vangelo di Marco, la presenza dei tre è legata a qualche evento straordinario
e basilare nella comprensione di chi sia veramente Gesù.
Quando risuscita la figlia di Giairo, manifesta la sua potenza sulla morte,
testimoniando che Egli è la vita.
Nella trasfigurazione, Gesù anticipa la Gloria della risurrezione e svela la sua
identità profonda.
Infine, nella profezia della caduta di Gerusalemme, Gesù annuncia il suo
ritorno nella Gloria, nella pienezza dei tempi.
Anche noi siamo invitati a far parte del gruppo ristretto dei tre, a seguire Gesù
nei momenti più intensi.
Qui al Getsemani, ancora, Gesù chiede ai tre di seguirlo, e Marco svela l’inatteso
volto di un Dio che si spaventa, che è pieno di angoscia, che condivide, senza
falsità, i tratti più deboli della natura umana.
Chi è Gesù.
Si chiede Marco nel suo Vangelo.
È il Signore della vita, colui che manifesta la sua vera natura, colui che tornerà
nella Gloria.
Ma anche colui che vive la sua umanità acquisita totalmente, senza parentesi,
senza vantaggi.
Il discepolo è chiamato a seguire Gesù sulla via della Gloria che, però, passa
attraverso la notte del Getsemani.
Il desiderio, il bisogno del Signore, che chiede amicizia e vicinanza, ci svela il
volto autentico di Dio, che non è immutabile e impassibile ma, in Gesù,
sperimenta tutta la fragilità dell’umanità.
I discepoli, nel corso della storia, hanno capito di Gesù questa verità straordinaria;
in Lui coabitano, senza confondersi, la pienezza dell’umanità e la pienezza della
divinità.
Gesù non è un grande uomo pieno di intuizioni spirituali.
Gesù non è un involucro che contiene Dio.
Gesù è totalmente uomo, eccetto il peccato che, in effetti, rappresenta la
non-umanità, e totalmente Dio.
Queste due dimensioni in Lui coabitano, interagendo e ponendosi a servizio
del Regno e dell’annuncio del vero volto di Dio.
Riguardo alle cose di Dio, Gesù ha la piena conoscenza, perché Lui e il Padre
sono una cosa sola.
Riguardo alle cose degli uomini, Gesù, come noi, ha una conoscenza
parziale e limitata.
Gesù non finge di avere paura, non conosce il suo futuro, se non affidandosi
alle mani del Padre.
Probabilmente Gesù non si aspetta una fine del genere.
L’angoscia che prende Gesù non è finta, non è immotivata, non è inspiegabile.
È l’angoscia dell’uomo di fronte alla propria morte.
Davanti alla propria morte ingiusta e violenta.
Davanti al fallimento della propria vita, che forse è quello che ha fatto più
male a Gesù.
Marco lo sa.
Dice che Gesù è colto da terrore e spavento, e la sua anima è triste fino alla morte.
Gesù inizia a pregare e prova sbalordimento, è atterrito, impietrito, sconcertato.
I verbi usati da Marco, fanno notare i biblisti, descrivono il massimo dell’intensità
possibile, un’angoscia estrema, uno stupore assoluto.
Verbi che, in Marco, troviamo in altre due occasioni; è di sbalordimento il
sentimento delle donne davanti al sepolcro vuoto, è sbalordimento ciò che
provano le folle davanti alla guarigione de un indemoniato.
Gesù è atterrito, scosso, sconvolto.
La preghiera gli fa prendere coscienza dell’abisso che ha di fronte.
Non sempre però la preghiera porta con sé la pace.
A volte scombussola la nostra vita.
Non per questo Gesù smette di pregare.
Cosa teme il Signore?
Il dolore fisico?
Forte, terribile, atroce, ma pur sempre limitato nel tempo?
Cosa teme, di cosa ha paura?
Del senso di fallimento che lo assale, per aver sbagliato strategia nell’annuncio
del Regno?  NO!
Gesù ha paura dell’inutilità del suo sacrificio.
Perché mai la sua morte dovrebbe cambiare le cose?
Chi se ne accorgerà?
Siamo sinceri; gli apostoli si stanno dimostrando ben al di sotto delle legittime
aspettative, la folla gli ha girato le spalle, i capi dei sacerdoti e i sadducei lo
considerano un pericolo, i farisei un arrogante.
La più grande paura di Gesù, l’ultima tentazione di Cristo, è la prospettiva
dell’inutilità del suo sacrificio.
Migliaia di uomini sono morti crocifissi a Gerusalemme, sotto l’impero romano.
Di quanti di loro conosciamo il nome?
Di pochi, quasi di nessuno.
Il grande rischio che Dio sta correndo è la dimenticanza, finire, forse, nel ricordo
vago di un manipolo di esagitati, diventare una delle tante, troppe vittime del gioco
politico e del potere lungo la storia, un numero da statistica, un caso esemplare.
Per far capire al popolo chi comanda.
Il quel momento, in quel preciso momento, Gesù sa che la sua opera sta
per essere annientata.
E che può, per sempre, essere dimenticata.
Molti di noi, credo, in un sussulto di orgoglio e di eroismo, sarebbero disposti
a donare la propria vita.
A patto di finire sui giornali e di vedersi dedicare, eventualmente, un bel
monumento in una piazza cittadina.
Gesù affronta la sua fine, evitabile, (basterebbe fuggire), consapevole di
voler andare fino in fondo.
Perché vuole andare fino in fondo?
Perché la croce?  Che senso ha?
Altro è dire, altro è morire!
Altro è predicare, altro è morire!
Altro è essere buoni quando tutti applaudono, altro perdonare appeso alla croce!
La croce è la suprema manifestazione dell’amore di Dio agli uomini.
Fino a questo punto siamo amati.
La croce mostra la serietà assoluta dell’amore di Dio per noi.
Capirà l’umanità?
Capirà che Dio si consegna alla volontà degli uomini, visto che gli uomini non
vogliono consegnarsi alla volontà di Dio?
Credo proprio di no!
L’angoscia di Gesù si fonda sulla consapevolezza che il suo sacrificio potrebbe
rivelarsi inutile.
È un rischio, il suo, il più terribile.
La sua anima è triste fino alla morte.
La sua anima è triste da morire.
Da morirne.
A chi, fra noi, non è mai successo?
Di vivere un momento di tenebra, di scoraggiamento, di depressione che ci fa
morire pur essendo ancora vivi?
Di sperimentare un fallimento affettivo, una malattia, una delusione lavorativa,
una crisi economica, e di non farcela?
Questa immagine di Gesù che confida ai suoi una tristezza mortale mi
impressiona, mi scuote nel profondo.
Anche Dio ha sperimentato l’angoscia.
Ma questa angoscia non l’ha fermato, non l’ha schiantato, lo ha portato a
superare il suo desiderio di fuga e ad andare fino in fondo.
Gesù soffre per obbedienza, non gli passa neanche per la mente di non obbedire.
Amici che state leggendo, se siete tristi fino a sentirvi morire dentro, Dio sa
di cosa parlate.
Siamo soli, davanti al dolore estremo.
Dio non è un analgesico, non è un anestetico.
Ma è presente e vicino, solidale, si fa prossimo, resta con noi e veglia.
Siamo noi invece che ci addormentiamo.
Quanto incoraggia avere accanto, nei momenti del dolore, un amico!
Il dolore resta, ma la solitudine si attenua!
A Gesù è negata anche quest’ultima, debolissima consolazione.
Quanto menefreghismo c’è in noi.
Agli apostoli, pur invitati a vegliare, sono schiantati; le emozioni della giornata,
l’ora tarda; la cena abbondante impediscono loro di restare svegli, mettiamo
pure, anche, il non aver capito quello che stava succedendo.
Non c’è nulla di più pericoloso del sonno dell’anima.
Ci impedisce di vedere cosa accade dentro di noi e intorno a noi.
E il nostro mondo è un mondo che ci anestetizza, riempiendoci di cose da
fare, di persone da incontrare, di obbiettivi da raggiungere.
Perciò, ci manca uno spazio interiore per potere restare svegli.
E Luca aggiunge: “Poi, alzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò
addormentati, a motivo della tristezza.
Il nostro spirito può essere assopito a causa della tristezza, dello
scoraggiamento, dello sconforto.
Una depressione, un lutto non superato, una visione troppo pessimistica delle
cose ci portano ad un atteggiamento di sonno spirituale che ci impedisce di
vedere la presenza di Dio.
Per quanto possibile, occorre coltivare la gioia nei nostri cuori, fare in modo
che la tristezza non ci spenga.
Gesù chiede agli apostoli vicinanza, conforto, amicizia.
È bello pensare alla preghiera come una compagnia di Dio, come un
incoraggiamento all’uomo che soffre.
È bello pensare che la preghiera non è solo chiedere, ma anche esserci e donarsi.
L’invito che Gesù ancora rivolge a tutti noi è quello di vegliare, di non lasciarci
assopire dal sonno della vita.
Gesù torna, dopo la terza volta.
I suoi non hanno retto, pazienza, sarà forse per un’altra volta, forse.
Dio non ama la sofferenza e non la cerca.
La sofferenza, quasi sempre, mette a dura prova la fede e resta una delle
principali obiezioni alla volontà di Dio.
Come può un Dio buono permettere il dolore?
E, in particolare, il dolore dell’innocente?
Perché Dio non interviene a favore dell’oppresso, del perseguitato?
Gli adulti soffrono, spesso, in conseguenza delle proprie scelte.
Ma i bambini, che sono innocenti? Siamo onesti.
Quando accusiamo Dio della sofferenza che viviamo, dovremmo prima
farci un bell’esame di coscienza.
Dio non ferma le guerre perché siamo noi a doverle fermare.
Dio non sfama magicamente i bambini che muoiono di fame, perché siamo
noi a dover ridistribuire le risorse.
(In Europa si spende in prodotti dietetici quanto l’Etiopia spenda per sfamarsi!).
E allora, di chi è la colpa?
Dio non sceglie quando una persona deve morire; non si alza al mattino e, in
vestaglia e assonnato, si mette dinanzi a una gigantesca tastiera con sei milioni
di bottoncini, schiacciandoli a caso.
Dio ci tratta da adulti, pensa che l’uomo sia in grado di vivere in pace, di essere
solidale, di vivere sobriamente.
Vogliamo guardare il problema dell’obesità?
Certo, un po’ di umiltà non guasterebbe, al genere umano.
La natura ha il suo ciclo, nasce, cresce e muore.
E anche noi siamo così, come ogni creatura, viviamo un ciclo di vita più o meno
lunga, nasciamo, cresciamo, ci ammaliamo, moriamo.
Scusate; qualcuno può dirmi se prima di venire al mondo, ha fatto un
contratto con il Signore, di quanto sarà lunga la sua vita?
Eppure, diversamente dalle altre creature, l’uomo non accetta la propria morte,
si ribella.
Che mistero il cuore dell’uomo!
Questa ribellione, in un certo senso, rivela la sua dignità, è prova della sua
natura divina, del suo volere, sempre, andare oltre.
Ma perché Dio non interviene direttamente?
Perché ci tratta da adulti, dicevamo, e perché la creazione ha una sua armonia,
una sua logica, che Dio stesso rispetta e non stravolge.
E perché Dio rispetta la nostra libertà.
Quando una sera, una moglie disperata mi manifestava la sua sofferenza per una
improvvisa separazione e mi diceva: “Prego tanto, ma perché Dio non interviene?”.
Ho sorriso: anche Dio fa quel che può, ho risposto.
Se tuo marito ostinatamente tiene chiuso il cuore, come può Dio parlargli?
Alcuni, purtroppo, ancora oggi, pensano che la sofferenza sia una punizione di Dio.
Gesù ha definitivamente sciolto il legame peccato/malattia, colpa/punizione,
smentendo la diceria che vedeva negli ammalati dei maledetti, dei puniti,
adoperandosi per guarirli prima dai loro sensi di colpa, poi dalle loro infermità.
Gesù sa bene che la malattia e la morte non sono una punizione divina; i giudei
morti sotto il crollo della torre di Siloe o per mano di Pilato, non erano
particolarmente malvagi, e la colpa della loro morte è da ricercare nell’imperizia
del progettista e nell’arroganza del prefetto, non in Dio.
Ma, aggiunge Gesù, davanti a questi fatti il discepolo è chiamato a tenersi pronto
a qualunque evento, a cercare l’altrove.
Ma qui Gesù va oltre.
Dio non interviene a togliere il dolore.
Lo assume su di sé.
Il Getsemani ci rivela un Dio che non cancella la sofferenza, la condivide.
Lo vogliamo davvero, un Dio così?
Sinceramente non lo so!
Tre volte Gesù chiede agli apostoli di pregare.
Pregare per condividere con Gesù la gioia e il dolore del mondo può essere
una gran bella scoperta.
Però Matteo aggiunge un particolare.
Gesù chiede ai suoi, e a noi, di vegliare e di pregare per non entrare in tentazione.
La preghiera, in certe occasioni, ci è indispensabile per non entrare nella tentazione.
È difficile pregare, oggi onestamente.
Molte persone che ho incontrato, mi hanno manifestato la loro fatica a trovare
tempi e parole per pregare.
La liturgia delle ore è impegnativa, il rosario non a tutti piace, la messa quotidiana
è impraticabile da chi lavora e ha famiglia.
Così molte non trovano il modo di praticare una preghiera coinvolgente,
soddisfacente, che le faccia crescere.
Ma la stragrande maggioranza del popolo cristiano, non capisce la necessità di una
pratica di preghiera costante e quotidiana.
Nei momenti di festa va bene, magari nei momenti drammatici della vita si ricorre
a tutte le preghiere conosciute.
Ma, in fondo, perché pregare?
Gesù, nel Getsemani, ce ne offre la ragione principale; per non entrare in tentazione.
Quale tentazione?
La peggiore del nostro tempo; quella della dimenticanza.
I ritmi lavorativi e di vita sono così frenetici da impedirci di rientrare in noi stessi.
Il dramma della nostra cristianità è, semplicemente, quella di avere perso Cristo.
Bombardati da mille informazioni, spesso inutili, siamo ingombri di pensieri e
di cose da fare e rischiamo di giungere, esausti, alla fine delle nostre
giornate, senza avere avuto alcun confronto con la nostra interiorità.
Il sale della nostra vita, la fede, rischia di perdere il sapore e,
così, diventiamo insipidi.
La preghiera diventa, allora, l’opportunità quotidiana minima di ricordarci
chi siamo, e chi è Dio, e cos’è la vita, e cosa siamo chiamati a vivere.
Come se, alzando un tombino sul marciapiede della nostra città,
ci accorgessimo che sotto scorre l’oceano.
Abbiamo urgente bisogno di preghiera, di silenzio, di meditazione,
di spessore, di verità.
Abbiamo bisogno della Parola, come il pane.
Anche solo per cinque minuti al giorno, lo spazio interiore di preghiera
e riflessione ci è necessario per non cadere nel sonno dell’oblio, della
stanchezza esistenziale, dell’intasamento emozionale.
L’invito che Gesù rivolge alla Chiesa resta attuale e pieno di forza;
vegliamo per non entrare nella tentazione di lasciarci vivere.
Eccolo qui, il tempo opportuno.
L’avversario non giunge mai quando siamo in piena forma, al pieno delle
nostre capacità spirituali e di discernimento.
Giunge nel momento più difficile, quando siamo deboli, fragili, confusi.
Noi vorremmo una vita spirituale in discesa, una santità senza scosse,
un discepolato perfetto, pulito.
Che noia la tentazione!
Che fastidio i nostri limiti!
Come vorremmo presentarci a Gesù con il nostro ego spirituale tirato a lucido!
Gesù non la pensa così: “Quando lo spirito immondo esce da un uomo, se ne
va per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova.
Allora dice; ritornerò alla mia abitazione, da cui sono uscito.
E tornato la trova vuota, spazzata e adorna.
Allora va, si prende sette altri spiriti peggiori ed entra a prendervi dimora; e la
nuova condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima (Matteo 12,43-45).
A volte è meglio imparare a convivere con i propri limiti e le proprie povertà,
che permettono di restare nell’umiltà.
Una cosa è certa; l’avversario ci prende nel momento di maggiore fatica interiore.
L’avversario trova Gesù solo, affaticato, deluso, scoraggiato, e lo assale.
Dopo decenni di idiozie dette sul demonio, di film deliranti, è difficile parlare
serenamente dell’avversario.
Eppure c’è, e agisce.
È l’ombra, la parte oscura dentro di noi, quella che distrugge, scoraggia, avvilisce,
deprime, porta a compiere gesti di autolesionismo.
Si insinua nel pensiero, è ragionevole, è convincente.
Perché andare a farsi massacrare?
A cosa serve?
I suoi stanno dormendo, la missione è fallita, deve riconoscerlo, Gesù!
Forse aveva ragione l’avversario, nel deserto; è stato troppo ingenuo il Signore,
pensando di convertire l’umanità con le parole e il sorriso.
Ben altro ci vuole!
Prodigi, miracoli eclatanti, compromessi!
Ora Gesù raccoglie ciò che ha seminato; il nulla.
Perché andare a farsi uccidere? È inutile!
La tentazione dell’agonia di Gesù è terribile, realistica, credibile.
Perché andare a farsi uccidere?
È tutto inutile!
No, dice l’angelo che viene, non è inutile.
Chissà, forse, per incoraggiarlo, l’angelo gli ha fatto vedere me, te, tutti noi.
Noi che ci sentiamo salvati dal Signore, amati trasfigurati.
Forse, per consolare Gesù, l’angelo ha fatto vedere tutti noi, che siamo la
consolazione di Dio.
C’è un’annotazione particolare, in Luca, unica nei quattro vangeli.
Nel momento di lotta interiore più forte, più intenso, Luca scrive che il suo
sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra.
Quanto inchiostro ha fatto versare questo sangue versato!
Fantasia, esagerazione, palese dimostrazione che i vangeli sono fantasiosi
e inesatti, sostengono i criticoni professionisti.
E invece!
Il problema esiste; Luca usa il termine greco thrombos, che significa, grumo.
Come può un grumo uscire dal corpo?
Questa contraddizione ha fatto diventare matti i traduttori del passato.
Oggi, grazie alla medicina, abbiamo capito di cosa si è trattato; di ematidrosi.
Si tratta di una vasodilatazione intensa dei capillari sottocutanei, provocata
da una forte emozione, da una angoscia estrema.
I capillari, eccessivamente dilatati, si rompono, entrano in contatto con le
ghiandole sudoripare della pelle, ed esce una mistura di sangue e sudore.
Se non che, a contatto con l’aria, la porzione di sangue coagula e viene
trascinata a terra dal sudore.
Luca, perciò, sta descrivendo un fenomeno medico, non mistico.
Potremmo tradurre; e il suo sudore divenne come grumi di sangue che
rotolano fino a terra.
Questa annotazione ancora ci rivela la serietà della testimonianza.
E l’immenso dolore di Gesù.
E il fatto che probabilmente, come attesta la più antica tradizione cristiana,
Luca era un medico.
Un buon medico.
Gesù, quindi, torna dalla sua preghiera dolorosa con la consapevolezza
che è giunto il momento di consegnarsi.
Si è già affidato al Padre, ha piena fiducia in Lui.
Ora sa che non c’è altra strada.
Da qui in avanti coglieremo una sorta di serena rassegnazione nel suo agire,
nelle sue parole, nei suoi silenzi.
Gli uomini lo strazieranno. Lo massacreranno.
Ma il suo cuore, ormai, è donato totalmente al Padre.
Gli eventi precipitano; una piccola folla con torce e lance, composta da soldati
del tempio e, secondo Giovanni da soldati romani, avanza nell’oscurità senza fare
troppo rumore, per non attirare la curiosità dei pellegrini accampati nel vallone.
Giuda è con loro!
Gesù torna dalla preghiera, ormai tutto è compiuto.
Gli sgherri che accompagnano Giuda pensano di coglierlo di sorpresa; stupiti
trovano un Gesù pronto, che li aspetta.
Il racconto di Marco è concitato, frenetico, tutto si muove, eccetto Gesù che
assiste e, alla fine, getta un colpo di luce sugli eventi, interpretandoli.
Il tumulto tanto temuto si risolve in un breve confronto in cui qualcuno,
Pietro, specificherà Giovanni, usa una spada e mozza l’orecchio (Malco),
ad un servo del sommo sacerdote.
Gesù, sereno, prende in mano la situazione.
Lo abbiamo già visto; il Sinedrio ha deliberato di far fuori Gesù, lo ha
giudicato in contumacia, ora lo deve solo prelevare, in tutta fretta, prima
della pasqua, e farlo condannare dai romani.
Bisogna arrestarlo lontano dalla gente, che lo ascolta e gli vuole bene,
soprattutto dopo la risurrezione di Lazzaro.
Giuda, accecato dal proprio giudizio, pensa che la situazione stia precipitando;
forse è bene organizzare un incontro col Sinedrio, costi quel che costi.
Sia Giuda sia i sacerdoti si aspettano una reazione da questi galilei (gli zeloti,
movimento estremista e violento, non provengono forse dalla Galilea?),
meglio premunirsi.
Il ruolo di Giuda è quello di segnalare la presenza di Gesù in un luogo appartato,
dove possa essere prelevato senza clamore, in tutta fretta.
Perciò Giuda, che tradisce nervosismo, chiede ai soldati di portarlo via con
attenzione, senza attirare lo sguardo dei numerosi pellegrini accampati nella
valle del Cedron.
È una folla, una turba, quella che va ad arrestare Gesù.
Non hanno nomi, o identità, sono dei violenti che arrivano con spade e bastoni.
Si è sempre soli quando si fa il bene.
Il male, invece, raduna folle oceaniche.
Siamo sempre soli, se scegliamo l’ardua via del Regno, la presenza di
Cristo Signore, la luce del Vangelo.
Soli e anche considerati un pò fessi, a dirla tutta.
Non vi è mai capitato di parlare di Dio, ed essere guardati male? Io si!
La folla, invece, spinge al male, galvanizza, accende, eccita.
Spesso è un branco che violenta le donne, o uccide le persone inermi.
Stare insieme dona coraggio, oscura la coscienza, aiuta a commettere il crimine.
Così accade con Gesù.
Giuda, resta uno dei Dodici, uno dei chiamati.
Uno di coloro che ha avuto il privilegio di seguire il Rabbì, anche ora che il
suo cuore è confuso.
Il segno che Giuda da, serve a identificare il Rabbì.
Un bacio, che ironia!
Questo particolare mi ha colpito, durante la lettura per la meditazione, mi ha
messo in ansia leggendo il brano; quello che io bacerò è Lui, prendetelo; la mia
mente ha iniziato a girare convulsamente.
Ma non ha senso!
Tutti sapevano benissimo chi fosse Gesù, perché indicarlo?
Ho letto e riletto il brano, ed è arrivata la spiegazione, stiracchiata però, c’erano
le torce, è vero, il buio però avrebbe potuto non far riconoscere Gesù, perciò
serviva un segno, un bacio.
Bene, giusto, ovvio.
Ci ho creduto poco!
Ripensando alla lettura, però, nel bagliore delle torce è venuta una considerazione;
forse con quel segno, che indica Gesù, gli evangelisti osano molto di più.
Stanno dicendo; anche se Giuda è un traditore, senza saperlo fa ancora L’apostolo.
Indica il Cristo.
È stiracchiata come interpretazione, ma quel bacio è pieno di significati.
Quel bacio è un segno per gli sgherri.
E per Gesù.
Giuda si avvicina e lo saluta, come usano i discepoli rivolgendosi al Maestro.
E lo bacia.
Un bacio frettoloso, nervoso, falso.
Eppure Gesù lo accoglie, pur sapendo benissimo che quel segno è un segno di morte.
E parla: “Amico, perché sei qui?”.
Amico; colui che io amo. Anche ora.
Amico; non cambia nulla nel cuore del Maestro, ancora un ultimo, disperato
tentativo di salvarlo.
Amico; non traditore, non spregevole, non bastardo.
Amico! Perche sei qui?
Gesù lo invita a consapevolezza, a prendere coscienza di ciò che sta facendo,
a reagire, anche solo per un istante.
Ma è troppo tardi.
Dio non viene mai meno al suo amore; mai.
Anche se ci allontaniamo da Lui, Egli non si allontana da noi, perché ci ama
di tenerezza infinita.
Dio non si pente di averci chiamati a sé, di averci fatti discepoli, anche
quando lo tradiamo, o lo rinneghiamo.
Giuda nel cuore di Gesù, è ancora discepolo.
Ed è infinitamente amato, perché Dio, contrariamente a noi, non ama per il
merito, ma secondo la necessità, e Giuda ha un bisogno enorme di amore.
Gesù parla; l’unico, oltre a Giuda.
Siete venuti nelle tenebre a prendermi, invece di arrestarmi al tempio.
Ma si devono adempiere le scritture.
Questa è l’ora delle tenebre, la vostra, dice Luca.
Giuda ha sbagliato, certo.
Ma tutti fuggono.
I discepoli fuggono, tutti, abbandonandolo al suo destino.
Giuda ha sbagliato.
Ma nessuno, fra loro, brilla di audacia e di generosità.
Gesù si fa avanti; chi cercate?
Non c’è bisogno di nessun segno; Giuda però va fino in fondo al suo misfatto,
lo bacia perché sia riconosciuto.
Chi cercate?
La domanda coglie di sorpresa i suoi accusatori; si aspettavano un uomo
spaventato e fragile, trovano un uomo sereno e deciso.
Chi cercate?
La stessa domanda che Gesù rivolge ai due discepoli di Giovanni che lo seguono
e che porrà alla Maddalena nell’orto degli ulivi dopo la risurrezione.
I discepoli cercano certezze, il Signore li invita a seguirlo e a vedere.
I soldati cercano un brigante, troveranno l’assoluto di Dio.
Maria cerca un cadavere da piangere, troverà il risorto.
Chi cerchiamo, quando seguiamo Gesù?
Certezze? Consolazione? Rassicurazioni?
Gesù è sempre altro, sempre altrove, non si lascia toccare, non si lascia
ingabbiare nelle definizioni, neppure in quelle devote e pie.
Chi cercate?
Il Vangelo ci dice che Gesù chiede autenticità e verità, che seguirlo ci porta,
inevitabilmente, a  riconoscere le nostre ombre e a superarle.
Gesù chiede la consapevolezza, la riflessione su noi stessi, la autoanalisi.
Il mio vero io riconosce il vero Dio.
Gesù scuote chi lo segue; non vuole dei discepoli a rimorchio, non vuole
dei discepoli frignoni (sempre a piangerci addosso).
E vuole che Giuda e i soldati si rendano conto di chi stanno arrestando.
Un agitatore di folle?
Un povero squilibrato?
Un fanatico religioso?
Un pericolo per la stabilità dell’impero?
No, stanno per arrestare Dio!
Cercano Gesù il Nazareno.
È di fronte a loro, ma non lo riconoscono, nemmeno Giuda.
Cercano Gesù. Per arrestarlo.
La risposta di Gesù fa tremare i polsi.
Io sono! Il nome stesso di Dio!
Quel nome, impronunciabile, YHWH, Io sono, Io sono colui che sono,
Io sono colui che è, Io ci sono, Io sono presente.
Il nome stesso di Dio, nome donato, perché in Israele il nome descrive
l’essenza di chi definisce, non declina le generalità.
Quel nome che non si poteva pronunciare senza commettere peccato, che nessuno,
mai, avrebbe osato attribuire a un uomo o, peggio, a se stesso; Gesù se lo attribuisce.
E la reazione è immediata; tutti arretrano e cadono, precipitano a terra.
È normale; davanti al Divino, si cade a terra.
Ora sanno con chi hanno a che fare, ora sanno chi conduce il gioco.
Pensano di essere i padroni della situazione, ma non lo sono.
Gesù insite, detta le condizioni, quelli che sono con Lui bisogna lasciarli andare.
Tenero; pensa a loro, invece che a sé.
Gesù, già con i suoi discepoli, si sostituisce, si mette avanti, va al posto loro.
Gesù si dona, sul serio.
Dio è un Padre che dona la propria vita per i figli.
Ora i soldati, e Giuda, (e noi con loro), sanno, sappiamo.
È l’immenso che stanno fermando, l’Assoluto che pensano di poter arrestare,
il Creatore del Cosmo, colui che stanno per condurre al Sinedrio.
Ecco, tutto è pronto, Gesù si è consegnato, la notte è ormai avanzata, i soldati
lo portano in città, alla luce delle torce, in un luogo dove si è radunata,
in tutta fretta, una parte del gruppo del Sinedrio.
Va in scena, ora, il più ridicolo dei procedimenti penali della storia.
Il processo di Gesù.       
Buona lettura amici in questo giorno triste, ma che ci dona certezze.