LE ONG NON SALVANO VITE
UMANE, MA LE METTONO
APPOSTA IN PERICOLO.
Perciò è istigazione al
suicidio.
Lo scopo è solo di
favorire l'invasione (ad es. la Sea Watch costa 3 milioni di euro
l'anno, ma con questi
soldi si potevano mantenere 200 mila africani a casa loro).
Io continuo a pensare che
l'impossibilità di confrontare serenamente e razionalmente
le opinioni dipenda da Internet.
È quello che sta succedendo con
la vicenda della Sea Watch.
La moltitudine dei difensori
della Ong (di tutte le Ong che operano nel Mediterraneo)
e del capitano Carola Rackete
sostiene questo sillogismo:
a) Premessa maggiore: la vita
umana è bene primario.
b) Premessa minore: le Ong
salvano vite umane.
c) Conclusione: per salvare vite
umane (beni primari) si può violare ogni
norma che tuteli beni secondari.
Si tratta in realtà di un
paralogismo: la premessa minore è erronea.
Le Ong non salvano vite umane.
Al contrario le mettono
intenzionalmente in pericolo.
Quello che vogliono è favorire la
migrazione.
A questo scopo ogni Ong si è data
una struttura economica e operativa.
Fausto Biloslavo su Il Giornale,
ha fornito informazioni impressionati: «Sea Watch
è costata nel 2018 oltre un
milione e mezzo di euro (lavori in cantiere dell'anno
prima e due gommoni).
Si devono aggiungere 304.069,65
euro per spese equipaggio e personale amministrativo
a Berlino e Amburgo.
Ancora: viaggi e voli di
equipaggi e attivisti: 61.980,36 euro, assicurazione, ormeggi
e tasse portuali: 100mila euro,
viveri per equipaggio e migranti: 36.456,76 euro,
telecomunicazioni: 22.661,23
euro, carburante: 80mila euro, manutenzione: 77mila
euro, «fornitori di servizi
esterni» (?): 102.172,57 euro, spese burocratiche: 192 mila
euro, team italiano (lobbisti):
62.815,17.
Ci sono poi due aerei, uno
costato 100.000 euro che ha compiuto un'operazione (?)
262.435,00 euro.
Carburante e tasse aeroportuali:
162.360,00 euro.
Totale, circa 2.700.000 euro,
pagati dalla federazione evangelica tedesca».
SALVARE VITE È UNA
SCUSA
Dunque, «salvare vite» è costato,
nel 2018, quasi 3 milioni di euro.
Tempo fa ho appreso che un
immigrato (clandestino, che si era rivolto ad uno
studio legale, imbarcatosi in
Libia dopo un lungo viaggio attraverso mezza Africa)
ha mantenuto per oltre due anni
la sua famiglia in Bangladesh con i 2,5 euro giornalieri
che riceveva dallo Stato durante
il periodo di attesa della sentenza definitiva sul
suo diritto a ricevere il
permesso di soggiorno.
Cinque persone (padre, madre,
fratello, moglie del fratello e bambina) hanno
vissuto per oltre due anni con 75
euro al mese.
I 3 milioni spesi per la Sea
Watch avrebbero mantenuto in vita ogni
anno 200 mila persone. A casa
loro.
Da dove non avrebbero avuto
motivo di allontanarsi per affrontare un viaggio
attraverso Somalia o Etiopia, poi
Mali o Niger o Sudan, infine Libia (il clandestino
ci ha impiegato un anno e mezzo),
e alla fine un soggiorno di imprecisata durata
nei famigerati lager libici.
Né avrebbero avuto motivo di
imbarcarsi su gommoni malsicuri con elevata
probabilità di affogare.
Dubito che Sea Watch abbia, nel
2018, «salvato 200 mila vite».
Ma, se anche tante fossero state,
il «salvataggio» ha avuto come ineliminabile
conseguenza, l'abbandono in un
Paese straniero che non le voleva, il passaggio
in clandestinità e–soprattutto-la
mancanza di mezzi di sussistenza alle famiglie
rimaste nei Paesi di origine.
Chiunque, anche Sea Watch,
capisce che i tre milioni di euro all'anno sono stati
proprio buttati dalla finestra.
Allora, perché?
IL VERO SCOPO È
FAVORIRE L'INVASIONE
Prima di rispondere alla domanda,
un'altra considerazione.
Un migrante disperato
attraverserebbe il canale di Sicilia a nuoto?
Ovviamente no, se non per uscire
dalla sua disperazione con il suicidio.
Eppure, se sapesse che Sea Watch
e le altre Ong non lo raccoglieranno, che il
mare è un deserto dove si troverà
solo, solo questo gli rimarrebbe da fare.
Oppure potrebbe rinunciare a
migrare.
Dunque è assolutamente evidente
che la massiccia migrazione attraverso il
Mediterraneo è dovuta alla
ragionevole certezza o rilevante probabilità (in realtà
non tanto rilevante ma la
disperazione è una molla potente) che qualcuno li raccoglierà.
D'altra parte che le Ong siano lì
per questo, che gli aerei pattuglino la zona per
questo, che ci siano accordi tra
Ong e trafficanti libici (metteteli in mare e noi
arriveremo) lo sappiamo noi e lo
sanno loro.
Allora è evidente che la causa
prima della necessità di «salvare vite» sta proprio
nella predisposizione
dell'operazione di salvataggio.
Mettiti in pericolo e io verrò a
salvarti.
La risposta al «perché» adesso è
facile.
Sea Watch e le altre ritengono
che favorire la migrazione dai Paesi poveri ai Paesi
ricchi sia cosa buona e giusta.
Quindi si organizzano per
trasportare i migranti.
Naturalmente non possono mettere
in piedi un servizio navetta ufficiale,
prelevandoli in territorio libico
e sbarcandoli in Europa (sul dove in Europa
si apre un altro discorso).
Quindi li «salvano» in mare.
Che è come dire: la casa in cui
abiti è pericolante e insalubre; assicurala e
dalle fuoco; io sono pronto a
portare una scala fino al terzo piano e a «salvarti»;
l'assicurazione ti darà un po' di
soldi e tu ti rifarai una vita.
Tutti contenti. Meno
l'assicuratore. Ma chi se ne frega.
Tutto questo ha, deve avere,
conseguenze penali.
Ma al momento è evidente che le
ipocrite ammonizioni lanciate al nostro Paese
(«salvare vite non può mai essere
un reato») sono non pertinenti.
C'è chi lo sa benissimo e parla
imbiancando i suoi sepolcri; e chi non capisce
niente: ma «l'ho letto su
Internet».
Poi, abbiamo gli ipocriti di
sinistra che sono compiacenti per scopi di lucro.