Chiudo gli occhi, prego!
Vedo Gesù, in mezzo agli ulivi, lo sento
pregare.
Sto a distanza, come hanno fatto gli
apostoli.
È la notte del giovedì santo.
Immagino lo stato d’animo del Rabbì, non
è difficile;
basta aprire il cuore.
Sono turbato, emozionato e commosso.
Allora iniziamo meditando il racconto di
Marco.
La cena si è conclusa.
Gesù, con i suoi, discende la scalinata
verso il Cedron,
attraversa il fiume in secca,
costeggiando gruppi di pellegrini
che bivaccano in attesa della pasqua, e
si dirige verso un
podere di proprietà di un conoscente, o
parente.
È abituale, questa passeggiata; Gesù fa
questo tragitto
quando va dai suoi amici a Betania e, fanno
intendere gli
evangelisti, quando, spesso, si ritira in
questo luogo solitario,
prospiacente il tempio, per pregare.
Ma il suo stato d’animo, oggi, è
completamente diverso.
Non è la prima volta che Gesù si ritira a
pregare,
la sua vita di preghiera è ben
testimoniata dai vangeli,
in particolare da quello di Luca.
Gesù prende con se Pietro, Giacomo e
Giovanni, i discepoli
della prima ora, quelli che lo hanno
conosciuto all’inizio,
quando Gesù era ospitato a Cafarnao, sul
lago, nella casa di Cefa.
Nei momenti più intensi e particolari, o
in quelli che
richiedono un numero più ristretto di testimoni
rispetto
al gruppo dei Dodici, Gesù vuole proprio
loro tre accanto.
Nel Vangelo di Marco, la presenza dei tre
è legata a qualche
evento straordinario e basilare nella
comprensione di chi
sia veramente Gesù.
Quando risuscita la figlia di Giairo, manifesta
la sua potenza
sulla morte, testimoniando che Egli è la
vita.
Nella trasfigurazione, Gesù anticipa la Gloria
della
risurrezione e svela la sua identità
profonda.
Infine, nella profezia della caduta di
Gerusalemme, Gesù
annuncia il suo ritorno nella Gloria,
nella pienezza dei tempi.
Anche noi siamo invitati a far parte del
gruppo ristretto
dei tre, a seguire Gesù nei momenti più
intensi.
Qui al Getsemani, ancora, Gesù chiede ai
tre di seguirlo,
e Marco svela l’inatteso volto di un Dio
che si spaventa,
che è pieno di angoscia, che condivide, senza
falsità,
i tratti più deboli della natura umana.
Chi è Gesù.
Si chiede Marco nel suo Vangelo.
È il Signore della vita, colui che
manifesta la sua vera
natura, colui che tornerà nella Gloria.
Ma anche colui che vive la sua umanità
acquisita totalmente,
senza parentesi, senza vantaggi.
Il discepolo è chiamato a seguire Gesù
sulla via della Gloria
che, però, passa attraverso la notte del
Getsemani.
Il desiderio, il bisogno del Signore, che
chiede amicizia e
vicinanza, ci svela il volto autentico di
Dio, che non è
immutabile e impassibile ma, in Gesù,
sperimenta tutta
la fragilità dell’umanità.
I discepoli, nel corso della storia, hanno
capito di Gesù
questa verità straordinaria; in Lui
coabitano, senza
confondersi, la pienezza dell’umanità e
la pienezza
della divinità.
Gesù non è un grande uomo pieno di
intuizioni spirituali.
Gesù non è un involucro che contiene Dio.
Gesù è totalmente uomo, eccetto il
peccato che, in effetti,
rappresenta la non—umanità, e totalmente
Dio.
Queste due dimensioni in Lui coabitano, interagendo
e ponendosi a servizio del Regno e
dell’annuncio del
vero volto di Dio.
Riguardo alle cose di Dio, Gesù ha la
piena conoscenza,
perché Lui e il Padre sono una cosa sola.
Riguardo alle cose degli uomini, Gesù,
come noi,
ha una conoscenza parziale e limitata.
Gesù non finge di avere paura, non
conosce il suo futuro,
se non affidandosi alle mani del Padre.
Probabilmente Gesù non si aspetta una
fine del genere.
L’angoscia che prende Gesù non è finta,
non è immotivata, non è inspiegabile.
È l’angoscia dell’uomo di fronte alla
propria morte.
Peggio.
Davanti alla propria morte ingiusta e
violenta.
Peggio.
Davanti al fallimento della propria vita,
che forse è quello che ha fatto più male
a Gesù.
Marco lo sa.
Dice che Gesù è colto da terrore e
spavento,
e la sua anima è triste fino alla morte.
Gesù inizia a pregare e prova
sbalordimento,
è atterrito, impietrito, sconcertato.
I verbi usati da Marco, fanno notare i
biblisti,
descrivono il massimo dell’intensità
possibile,
un’angoscia estrema, uno stupore
assoluto.
Verbi che, in Marco, troviamo in altre due
occasioni;
è di sbalordimento il sentimento delle
donne davanti al
sepolcro vuoto, è sbalordimento ciò che
provano le folle
davanti alla guarigione de un indemoniato.
Gesù è atterrito, scosso, sconvolto.
La preghiera gli fa prendere coscienza
dell’abisso che ha di fronte.
Non sempre però la preghiera porta con sé
la pace.
A volte scombussola la nostra vita.
Non per questo Gesù smette di pregare.
Cosa teme il Signore? Il dolore fisico?
Forte, terribile, atroce, ma pur sempre
limitato nel tempo?
Cosa teme, di cosa ha paura?
Del senso di fallimento che lo assale,
per aver
sbagliato strategia nell’annuncio del
Regno? NO!
Gesù ha paura dell’inutilità del suo
sacrificio.
Perché mai la sua morte dovrebbe cambiare
le cose?
Chi se ne accorgerà?
Siamo sinceri; gli apostoli si stanno
dimostrando
ben al di sotto delle legittime
aspettative, la folla gli
ha girato le spalle, i capi dei sacerdoti
e i sadducei lo
considerano un pericolo, i farisei un
arrogante.
La più grande paura di Gesù, l’ultima
tentazione di Cristo,
è la prospettiva dell’inutilità del suo
sacrificio.
Migliaia di uomini sono morti crocifissi
a Gerusalemme,
sotto l’impero romano.
Di quanti di loro conosciamo il nome?
Di pochi, quasi di nessuno.
Il grande rischio che Dio sta correndo è
la dimenticanza,
finire, forse, nel ricordo vago di un
manipolo di esagitati,
diventare una delle tante, troppe vittime
del gioco politico
e del potere lungo la storia, un numero
da statistica,
un caso esemplare.
Per far capire al popolo chi comanda.
Il quel momento, in quel preciso momento,
Gesù sa che la sua opera sta per essere
annientata.
E che può, per sempre, essere
dimenticata.
Molti di noi, credo, in un sussulto di
orgoglio e di eroismo,
sarebbero disposti a donare la propria
vita.
A patto di finire sui giornali e di
vedersi dedicare,
eventualmente, un bel monumento in una
piazza cittadina.
Gesù affronta la sua fine, evitabile,
(basterebbe fuggire),
consapevole di voler andare fino in
fondo.
Perché vuole andare fino in fondo?
Perché la croce? Che senso ha?
Altro è dire, altro è morire!
Altro è predicare, altro è morire!
Altro è essere buoni quando tutti
applaudono,
altro perdonare appeso alla croce!
La croce è la suprema manifestazione
dell’amore di
Dio agli uomini.
Fino a questo punto siamo amati.
La croce mostra la serietà assoluta
dell’amore di Dio per noi.
Capirà l’umanità?
Capirà che Dio si consegna alla volontà
degli uomini, visto
che gli uomini non vogliono consegnarsi
alla volontà di Dio?
Credo proprio di no!
L’angoscia di Gesù si fonda sulla
consapevolezza
che il suo sacrificio potrebbe rivelarsi
inutile.
È un rischio, il suo, il più terribile.
La sua anima è triste fino alla morte.
La sua anima è triste da morire.
Da morirne.
A chi, fra noi, non è mai successo?
Di vivere un momento di tenebra, di
scoraggiamento,
di depressione che ci fa morire pur
essendo ancora vivi?
Di sperimentare un fallimento affettivo,
una malattia, una
delusione lavorativa, una crisi
economica, e di non farcela?
Questa immagine di Gesù che confida ai
suoi una tristezza
mortale mi impressiona, mi scuote nel
profondo.
Anche Dio ha sperimentato l’angoscia.
Ma questa angoscia non l’ha fermato, non
l’ha schiantato,
lo ha portato a superare il suo desiderio
di fuga e ad
andare fino in fondo.
Gesù soffre per obbedienza, non gli passa
neanche
per la mente di non obbedire.
Fratelli e sorelle che state a leggere,
se siete tristi
fino a sentirvi morire dentro, Dio sa di
cosa parlate.
Siamo soli, davanti al dolore estremo.
Dio non è un analgesico, non è un
anestetico.
Ma è presente e vicino, solidale, si fa
prossimo, resta
con noi e veglia.
Siamo noi invece che ci addormentiamo.
Quanto incoraggia avere accanto, nei
momenti del dolore,
un amico!
Il dolore resta, ma la solitudine si
attenua!
A Gesù è negata anche quest’ultima,
debolissima consolazione.
Quanto menefreghismo c’è in noi.
Agli apostoli, pur invitati a vegliare,
sono schiantati; le
emozioni della giornata, l’ora tarda; la
cena abbondante
impediscono loro di restare svegli, mettiamo
pure, anche,
il non aver capito quello che stava
succedendo.
Non c’è nulla di più pericoloso del sonno
dell’anima.
Ci impedisce di vedere cosa accade dentro
di noi e intorno a noi.
E il nostro mondo è un mondo che ci
anestetizza,
riempiendoci di cose da fare, di persone
da incontrare,
di obbiettivi da raggiungere.
Perciò, ci manca uno spazio interiore per
poter restare svegli.
E Luca aggiunge: “Poi, alzatosi dalla
preghiera, andò dai
discepoli e li trovò addormentati, a
motivo della tristezza,
il nostro spirito può essere assopito a
causa della tristezza,
dello scoraggiamento, dello sconforto.
Una depressione, un lutto non superato, una
visione troppo
pessimistica delle cose ci portano ad un
atteggiamento di
sonno spirituale che ci impedisce di
vedere la presenza di Dio.
Per quanto possibile, occorre coltivare
la gioia nei nostri
cuori, fare in modo che la tristezza non
ci spenga.
Gesù chiede agli apostoli vicinanza,
conforto, amicizia.
È bello pensare alla preghiera come una
compagnia di
Dio, come un incoraggiamento all’uomo che
soffre.
È bello pensare che la preghiera non è
solo chiedere,
ma anche esserci e donarsi.
L’invito che Gesù ancora rivolge a tutti
noi è quello di
vegliare, di non lasciarci assopire dal
sonno della vita.
Gesù torna, dopo la terza volta.
I suoi non hanno retto, pazienza, sarà
forse per un’altra
volta, forse.
Dio non ama la sofferenza e non la cerca.
La sofferenza, quasi sempre, mette a dura
prova la fede e
resta una delle principali obiezioni alla
volontà di Dio.
Come può un Dio buono permettere il
dolore?
E, in particolare, il dolore
dell’innocente?
Perché Dio non interviene a favore
dell’oppresso, del perseguitato?
Gli adulti soffrono, spesso, in
conseguenza delle proprie scelte.
Ma i bambini, che sono innocenti?
Siamo onesti.
Quando accusiamo Dio della sofferenza che
viviamo,
dovremmo prima farci un bell’esame di
coscienza.
Dio non ferma le guerre perché siamo noi
a doverle fermare.
Dio non sfama magicamente i bambini che
muoiono di fame,
perché siamo noi a dover ridistribuire le
risorse.
(In Europa si spende in prodotti
dietetici
quanto l’Etiopia spenda per sfamarsi!).
E allora, di chi è la colpa?
Dio non sceglie quando una persona deve
morire; non
si alza al mattino e, in vestaglia e
assonnato, si mette dinanzi
a una gigantesca tastiera con sei milioni
di bottoncini,
schiacciandoli a caso.
Dio ci tratta da adulti, pensa che l’uomo
sia in grado di
vivere in pace, di essere solidale, di
vivere sobriamente.
Guardiamo il problema dell’obesità.
Certo, un po’ di umiltà non guasterebbe,
al genere umano.
La natura ha il suo ciclo, nasce, cresce
e muore.
E anche noi siamo così, come ogni
creatura, viviamo un ciclo
di vita più o meno lunga, nasciamo, cresciamo,
ci ammaliamo, moriamo.
Scusate; qualcuno può dirmi se prima di
venire al mondo,
ha fatto un contratto con il Signore, di
quanto sarà lunga
la sua vita?
Eppure, diversamente dalle altre
creature,
l’uomo non accetta la propria morte, si
ribella.
Che mistero il cuore dell’uomo!
Questa ribellione, in un certo senso,
rivela la sua dignità, è
prova della sua natura divina, del suo
voler, sempre, andare oltre.
Ma perché Dio non interviene
direttamente?
Perché ci tratta da adulti, dicevamo, e
perché la creazione
ha una sua armonia, una sua logica, che
Dio stesso rispetta
e non stravolge.
E perché Dio rispetta la nostra libertà.
Quando una sera, una moglie disperata mi
manifestava la sua
sofferenza per una improvvisa separazione
e mi diceva:
“Prego tanto, ma perché Dio non
interviene?”.
Ho sorriso: anche Dio fa quel che può, ho
risposto.
Se tuo marito ostinatamente tiene chiuso
il cuore,
come può Dio parlargli?
Alcuni, purtroppo, ancora oggi, pensano
che la
sofferenza sia una punizione di Dio.
Gesù ha definitivamente sciolto il legame
peccato/malattia,
colpa/punizione, smentendo la diceria che
vedeva negli
ammalati dei maledetti, dei puniti,
adoperandosi per guarirli
prima dai loro sensi di colpa, poi dalle
loro infermità.
Gesù sa bene che la malattia e la morte
non sono una
punizione divina; i giudei morti sotto il
crollo della torre
di Siloe o per mano di Pilato, non erano particolarmente
malvagi, e la colpa della loro morte è da
ricercare
nell’imperizia del progettista e
nell’arroganza
del prefetto, non in Dio.
Ma, aggiunge Gesù, davanti a questi fatti
il discepolo è chiamato
a tenersi pronto a qualunque evento, a
cercare l’altrove.
Ma qui Gesù va oltre.
Dio non interviene a togliere il dolore.
Lo assume su di sé.
Il Getsemani ci rivela un Dio che non cancella
la
sofferenza, la condivide.
Lo vogliamo davvero, un Dio così?
Sinceramente non lo so!
Tre volte Gesù chiede agli apostoli di
pregare.
Pregare per condividere con Gesù la gioia
e il dolore
del mondo può essere una gran bella
scoperta.
Però Matteo aggiunge un particolare.
Gesù chiede ai suoi, e a noi, di vegliare
e di pregare
per non entrare in tentazione.
La preghiera, in certe occasioni, ci è
indispensabile
per non entrare nella tentazione.
È difficile pregare, oggi onestamente.
Molte persone che ho incontrato, mi hanno
manifestato
la loro fatica a trovare tempi e parole
per pregare.
La liturgia delle ore è impegnativa, il
rosario non a tutti piace,
la messa quotidiana è impraticabile da
chi lavora e ha famiglia.
Così molti non trovano il modo di
praticare una preghiera
coinvolgente, soddisfacente, che li
faccia crescere.
Ma la stragrande maggioranza del popolo
cristiano,
non capisce la necessità di una pratica
di preghiera costante e quotidiana.
Nei momenti di festa va bene, magari nei
momenti
drammatici della vita si ricorre a tutte
le preghiere conosciute.
Ma, in fondo, perché pregare?
Gesù, nel Getsemani, ce ne offre la
ragione principale;
per non entrare in tentazione.
Quale tentazione?
La peggiore del nostro tempo; quella
della dimenticanza.
I ritmi lavorativi e di vita sono così
frenetici da
impedirci di rientrare in noi stessi.
Il dramma della nostra cristianità è,
semplicemente,
quella di avere perso Cristo.
Bombardati da mille informazioni, spesso
inutili, siamo
ingombri di pensieri e di cose da fare e rischiamo
di giungere,
esausti, alla fine delle nostre giornate,
senza avere avuto
alcun confronto con la nostra
interiorità.
Il sale della nostra vita, la fede,
rischia di perdere il sapore
e, così, diventiamo insipidi.
La preghiera diventa, allora,
l’opportunità quotidiana
minima di ricordarci chi siamo, e chi è
Dio, e cos’è la vita,
e cosa siamo chiamati a vivere.
Come se, alzando un tombino sul
marciapiede della nostra
città, ci accorgessimo che sotto scorre
l’oceano.
Abbiamo urgente bisogno di preghiera, di
silenzio,
di meditazione, di spessore e di verità.
Abbiamo bisogno della Parola, come il
pane.
Anche solo per cinque minuti al giorno,
lo spazio interiore
di preghiera e riflessione ci è
necessario per non cadere
nel sonno dell’oblio, della stanchezza
esistenziale,
dell’intasamento emozionale.
L’invito che Gesù rivolge alla Chiesa
resta attuale e pieno
di forza; vegliamo per non entrare nella
tentazione di
lasciarci vivere.
Eccolo qui, il tempo opportuno.
L’avversario non giunge mai quando siamo
in piena forma,
al pieno delle nostre capacità spirituali
e di discernimento.
Giunge nel momento più difficile,
quando siamo deboli, fragili, confusi.
Noi vorremmo una vita spirituale in
discesa, una santità
senza scosse, un discepolato perfetto,
pulito.
Che noia la tentazione!
Che fastidio i nostri limiti!
Come vorremmo presentarci a Gesù con il
nostro ego
spirituale tirato a lucido!
Gesù non la pensa così: “Quando lo
spirito immondo esce
da un uomo, se ne va per luoghi aridi
cercando sollievo,
ma non ne trova.
Allora dice; ritornerò alla mia
abitazione, da cui sono uscito.
E tornato la trova vuota, spazzata e
adorna.
Allora va, si prende sette altri spiriti
peggiori ed entra a
prendervi dimora; e la nuova condizione
di quell’uomo
diventa peggiore della prima.
A volte è meglio imparare a convivere con
i propri limiti
e le proprie povertà, che permettono di
restare nell’umiltà.
Una cosa è certa; l’avversario ci prende
nel momento
di maggiore fatica interiore.
L’avversario trova Gesù solo, affaticato,
deluso,
scoraggiato, e lo assale.
Dopo decenni di idiozie dette sul
demonio, di film deliranti,
è difficile parlare serenamente
dell’avversario.
Eppure c’è, e agisce.
È l’ombra, la parte oscura dentro di noi,
quella che
distrugge, scoraggia, avvilisce, deprime,
porta a compiere
gesti di autolesionismo.
Si insinua nel pensiero, è ragionevole, è
convincente.
Perché andare a farsi massacrare?
A cosa serve?
I suoi stanno dormendo, la missione è
fallita,
deve riconoscerlo, Gesù!
Forse aveva ragione l’avversario, nel
deserto; è stato troppo
ingenuo il Signore, pensando di
convertire l’umanità
con le parole e il sorriso.
Ben altro ci vuole!
Prodigi, miracoli eclatanti, compromessi!
Ora Gesù raccoglie ciò che ha seminato;
il nulla.
Perché andare a farsi uccidere? È
inutile!
Nella prova, se perseveriamo nella
preghiera, può succedere
che il Signore ci mandi degli angeli a
consolarci.
Possono essere amici che telefonano per
invitarci a cena,
un fratello nella fede che ci promette
preghiera,
un piccolo segno durante la giornata.
L’importante è avere il cuore aperto,
orante,
che sappia riconoscere i piccoli,
discreti segni della
presenza consolante e incoraggiante di
Dio).
La tentazione dell’agonia di Gesù è
terribile, realistica, credibile.
Perché andare a farsi uccidere?
È tutto inutile!
No, dice l’angelo che viene, non è
inutile.
Chissà, forse, per incoraggiarlo,
l’angelo gli ha fatto vedere me, te,
tutti noi.
Noi che ci sentiamo salvati dal Signore,
amati trasfigurati.
Forse, per consolare Gesù, l’angelo ha
fatto vedere tutti noi,
che siamo la consolazione di Dio.
C’è un’annotazione particolare, in Luca,
unica nei quattro vangeli.
Nel momento di lotta interiore più forte,
più intenso,
Luca scrive che il suo sudore diventò
come gocce di
sangue che cadevano a terra.
Quanto inchiostro ha fatto versare questo
sangue versato!
Fantasia, esagerazione, palese
dimostrazione che i vangeli
sono fantasiosi e inesatti, sostengono i
criticoni professionisti.
E invece!
Il problema esiste; Luca usa il termine
greco thrombos,
che significa, grumo.
Come può un grumo uscire dal corpo?
Questa contraddizione ha fatto diventare
matti i traduttori
del passato.
Oggi, grazie alla medicina, abbiamo
capito di cosa si è trattato;
di ematidrosi.
Si tratta di una vasodilatazione intensa
dei capillari sottocutanei,
provocata da una forte emozione, da una
angoscia estrema.
I capillari, eccessivamente dilatati, si
rompono, entrano
in contatto con le ghiandole sudoripare
della pelle,
ed esce una mistura di sangue e sudore.
Se non che, a contatto con l’aria, la
porzione di sangue
coagula e viene trascinata a terra dal
sudore.
Luca, perciò, sta descrivendo un fenomeno
medico, non mistico.
Potremmo tradurre; e il suo sudore
divenne come grumi
di sangue che rotolano fino a terra.
Questa annotazione ancora ci rivela la
serietà della testimonianza.
E l’immenso dolore di Gesù.
E il fatto che probabilmente, come
attesta la più
antica tradizione cristiana, Luca era un
medico.
Un buon medico.
Gesù, quindi, torna dalla sua preghiera
dolorosa con
la consapevolezza che è giunto il momento
di consegnarsi.
Si è già affidato al Padre, ha piena
fiducia in Lui.
Ora sa che non c’è altra strada.
Da qui in avanti coglieremo una sorta di serena
rassegnazione
nel suo agire, nelle sue parole, nei suoi
silenzi.
Gli uomini lo strazieranno. Lo
massacreranno.
Ma il suo cuore, ormai, è donato
totalmente al Padre.
Gli eventi precipitano; una piccola folla
con torce e lance,
composta da soldati del tempio e, secondo
Giovanni da
soldati romani, avanza nell’oscurità
senza fare troppo
rumore, per non attirare la curiosità dei
pellegrini
accampati nel vallone.
Giuda è con loro!
Gesù torna dalla preghiera, ormai tutto è
compiuto.
Gli sgherri che accompagnano Giuda
pensano di coglierlo
di sorpresa; stupiti trovano un Gesù
pronto, che li aspetta.
Il racconto di Marco è concitato,
frenetico, tutto si muove,
eccetto Gesù che assiste e, alla fine, getta
un colpo di luce
sugli eventi, interpretandoli.
Il tumulto tanto temuto si risolve in un
breve confronto
in cui qualcuno, Pietro, specificherà
Giovanni, usa una
spada e mozza l’orecchio (Malco), ad un
servo del
sommo sacerdote.
Gesù, sereno, prende in mano la
situazione.
Lo abbiamo già visto; il Sinedrio ha
deliberato di far fuori Gesù,
lo ha giudicato in contumacia, ora lo
deve solo prelevare,
in tutta fretta, prima della pasqua, e
farlo condannare dai romani.
Bisogna arrestarlo lontano dalla gente,
che lo ascolta e
gli vuole bene, soprattutto dopo la
risurrezione di Lazzaro.
Giuda, accecato dal proprio giudizio, pensa
che la situazione
stia precipitando; forse è bene
organizzare un incontro col
Sinedrio, costi quel che costi.
Sia Giuda sia i sacerdoti si aspettano
una reazione
da questi galilei (gli zeloti, movimento
estremista e violento,
non provengono forse dalla Galilea?),
meglio premunirsi.
Il ruolo di Giuda è quello di segnalare
la presenza
di Gesù in un luogo appartato, dove possa
essere
prelevato senza clamore, in tutta fretta.
Perciò Giuda, che tradisce nervosismo, chiede
ai soldati
di portarlo via con attenzione, senza
attirare lo sguardo
dei numerosi pellegrini accampati nella
valle del Cedron.
È una folla, una turba, quella che va ad
arrestare Gesù.
Non hanno nomi, o identità, sono dei
violenti
che arrivano con spade e bastoni.
Si è sempre soli quando si fa il bene.
Il male, invece, raduna folle oceaniche.
Siamo sempre soli, se scegliamo l’ardua
via del Regno,
la presenza di Cristo Signore, la luce
del Vangelo.
Soli e anche considerati un pò fessi, a
dirla tutta.
Non vi è mai capitato di parlare di Dio, ed
essere
guardati male? Io si!
La folla, invece, spinge al male,
galvanizza, accende, eccita.
Spesso è un branco che violenta le donne,
o uccide le
persone inermi.
Stare insieme dona coraggio, oscura la
coscienza,
aiuta a commettere il crimine.
Così accade con Gesù.
Giuda, resta uno dei Dodici, uno dei
chiamati.
Uno di coloro che ha avuto il privilegio
di seguire il Rabbì,
anche ora che il suo cuore è confuso.
Il segno che Giuda da, serve a
identificare il Rabbì.
Un bacio, che ironia!
Questo particolare mi ha colpito, durante
la lettura per
la meditazione, mi ha messo in ansia
leggendo il brano;
quello che io bacerò è Lui, prendetelo; la
mia mente ha
iniziato a girare convulsamente.
Ma non ha senso!
Tutti sapevano benissimo chi fosse Gesù,
perché indicarlo?
Ho letto e riletto il brano, ed è
arrivata la spiegazione,
stiracchiata però, c’erano le torce, è
vero, il buio però
avrebbe potuto non far riconoscere Gesù, perciò
serviva
un segno, un bacio.
Bene, giusto, ovvio.
Ci ho creduto poco!
Ripensando alla lettura, però, nel
bagliore delle torce
è venuta una considerazione; forse con
quel segno, che
indica Gesù, gli evangelisti osano molto
di più.
Stanno dicendo; anche se Giuda è un
traditore, senza
saperlo fa ancora l’apostolo.
Indica il Cristo.
È stiracchiata come interpretazione, ma
quel bacio è
pieno di significati.
Quel bacio è un segno per gli sgherri.
E per Gesù.
Giuda si avvicina e lo saluta, come usano
i discepoli
rivolgendosi al Maestro.
E lo bacia.
Un bacio frettoloso, nervoso, falso.
Eppure Gesù lo accoglie, pur sapendo
benissimo
che quel segno è un segno di morte.
E parla: “Amico, perché sei qui?”.
Amico; colui che io amo. Anche ora.
Amico; non cambia nulla nel cuore del
Maestro,
ancora un ultimo, disperato tentativo di
salvarlo.
Amico; non traditore, non spregevole, non
bastardo.
Amico! Perchè sei qui?
Gesù lo invita a consapevolezza, a
prendere coscienza di
ciò che sta facendo, a reagire, anche
solo per un istante.
Ma è troppo tardi.
Dio non viene mai meno al suo amore; mai.
Anche se ci allontaniamo da Lui, Egli non
si allontana
da noi, perché ci ama di tenerezza
infinita.
Dio non si pente di averci chiamati a sé,
di averci fatti
discepoli, anche quando lo tradiamo, o lo
rinneghiamo.
Giuda nel cuore di Gesù, è ancora
discepolo.
Ed è infinitamente amato, perché Dio,
contrariamente
a noi, non ama per il merito, ma secondo
la necessità,
e Giuda ha un bisogno enorme di amore.
Gesù parla; l’unico, oltre a Giuda.
Siete venuti nelle tenebre a prendermi,
invece di arrestarmi al tempio.
Ma si devono adempiere le scritture.
Questa è l’ora delle tenebre, la vostra,
dice Luca.
Giuda ha sbagliato, certo.
Ma tutti fuggono.
I discepoli fuggono, tutti,
abbandonandolo al suo destino.
Giuda ha sbagliato.
Ma nessuno, fra loro, brilla di audacia e
di generosità.
Andiamo più in profondità.
Gesù si fa avanti; chi cercate?
Non c’è bisogno di nessun segno; Giuda
però va fino in
fondo al suo misfatto, lo bacia perché
sia riconosciuto.
Chi cercate?
La domanda coglie di sorpresa i suoi
accusatori;
si aspettavano un uomo spaventato e
fragile,
trovano un uomo sereno e deciso.
Chi cercate?
La stessa domanda che Gesù rivolge ai due
discepoli di
Giovanni che lo seguono e che porrà alla Maddalena
nell’orto degli ulivi dopo la
risurrezione.
il Signore li invita a seguirlo e a
vedere.
I soldati cercano un brigante, troveranno
l’assoluto di Dio.
Maria cerca un cadavere da piangere, troverà
il risorto.
Chi cerchiamo, quando seguiamo Gesù?
Certezze? Consolazione? Rassicurazioni?
Gesù è sempre altro, sempre altrove, non
si lascia toccare,
non si lascia ingabbiare nelle
definizioni, neppure in
quelle devote e pie.
Chi cercate?
Il Vangelo ci dice che Gesù chiede
autenticità e verità,
che seguirlo ci porta, inevitabilmente,
a riconoscere
le nostre ombre e a superarle.
Gesù chiede la consapevolezza, la
riflessione su noi
stessi, la autoanalisi.
Il mio vero io riconosce il vero Dio.
Gesù scuote chi lo segue; non vuole dei
discepoli a rimorchio,
non vuole dei discepoli frignoni (sempre
a piangerci addosso).
E vuole che Giuda e i soldati si rendano
conto di chi
stanno arrestando.
Un agitatore di folle?
Un povero squilibrato?
Un fanatico religioso?
Un pericolo per la stabilità dell’impero?
No, stanno per arrestare Dio!
Cercano Gesù il Nazareno.
È di fronte a loro, ma non lo
riconoscono, nemmeno Giuda.
Cercano Gesù. Per arrestarlo.
La risposta di Gesù fa tremare i polsi.
Io sono! Il nome stesso di Dio!
Quel nome, impronunciabile, YHWH, Io
sono, Io sono colui
che sono, Io sono colui che è, Io ci
sono, Io sono presente.
Il nome stesso di Dio, nome donato,
perché in Israele il nome
descrive l’essenza di chi definisce, non
declina le generalità.
Quel nome che non si poteva pronunciare
senza commettere
peccato, che nessuno, mai, avrebbe osato
attribuire a un uomo
o, peggio, a se stesso; Gesù se lo
attribuisce.
E la reazione è immediata; tutti
arretrano e cadono,
precipitano a terra.
È normale; davanti al Divino, si cade a
terra.
Ora sanno con chi hanno a che fare,
ora sanno chi conduce il gioco.
Pensano di essere i padroni della
situazione,
ma non lo sono.
Gesù insite, detta le condizioni,
quelli che sono con Lui bisogna lasciarli
andare.
Tenero; pensa a loro, invece che a sé.
Gesù, già con i suoi discepoli, si
sostituisce,
si mette avanti, va al posto loro.
Gesù si dona, sul serio.
Dio è un Padre che dona la propria vita
per i figli.
Ora i soldati, e Giuda, (e noi con loro),
sanno, sappiamo.
È l’immenso che stanno fermando,
l’Assoluto che pensano
di poter arrestare, il Creatore del
Cosmo, colui che stanno
per condurre al Sinedrio.
Ecco, tutto è pronto, Gesù si è
consegnato, la notte è
ormai avanzata, i soldati lo portano in
città, alla luce
delle torce, in un luogo dove si è
radunata, in tutta
fretta, una parte del gruppo del
Sinedrio.
Va in scena, ora, il più ridicolo dei
procedimenti
penali della storia.
Il processo di Gesù.