sabato 26 agosto 2017

Anche a noi, oggi, Gesù ci chiede: "Chi sono io per te?". E noi cosa rispondiamo?

Dal Vangelo secondo Matteo (16,13-20) anno A.
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò
ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?».
Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa
o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?».
Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne
né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.
E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa
e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.
A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà
legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.
Parola del Signore.
Rivelati a noi stessi. 
 Ogni anno, puntuale, ritroviamo nel nostro itinerario la pagina di Cafarnao,
il momento più importante dell'avventura degli apostoli, il momento in cui il
Signore li invita a fare il punto del loro cammino dietro a Lui .
Già: perché seguiamo Gesù?
Perché, come loro, siamo rimasti affascinati dalle sue parole che sono
Spirito e vita?
E, soprattutto, chi è questo Gesù per noi?
Ogni anno, a questo punto, il Signore ci chiede di non dare nulla per scontato,
anzi insiste perché, nel silenzio della preghiera, ricollochiamo nella nostra vita
la sua presenza.
Gesù non fa un sondaggio d'opinione tra i suoi, non vuole avere notizie sulla sua
fama diffusa, ma ci pone-tagliente-la domanda: "Dì, e per te cosa rappresento?".
Come domenica scorsa con la Cananea, è il passaggio dalle discussioni teoriche
alla messa in discussione di noi stessi.
La Cananea contestava la divinità che, a suo parere, doveva esaudirla.
Gesù, duramente, la portava ad interrogarsi sulla sua (limitata) visione di Dio.
Un altro passo compiamo oggi; che idea ha la gente di Gesù?
Se ne parla, spesso, forse mai nessun personaggio della storia ha suscitato
tante discussioni.
Ma non restiamo nel vago, non facciamo salotto; schieriamoci, prendiamoci da
parte e lasciamo che la bruciante domanda del Rabbì ci perfori il cuore; chi è
davvero Gesù di Nazareth per me?
Un grand'uomo del passato?
Una distratta divinità a cui rivolgermi?
Un amico da contattare quando le cose non funzionano?
Pietro si schiera; egli è l'atteso, anche se quest'affermazione deve ancora portare
a conversione Pietro che ancora s'immagina un Messia trionfante, un Dio vittorioso.
Domenica della scelta, questa.
O della ri-scelta che continuamente siamo chiamati a compiere, dell'incontro con
lo sguardo del Nazareno-vivo-che ci chiede adesione al suo progetto di vita.
Ancora; voglio condividere con voi una riflessione che ho sentito tempo fa che
mi ha riempito il cuore di gioia.
È una lettura profonda del dialogo che intercorre tra Pietro e Gesù.
O, meglio tra Simone e Gesù.
Ridotto all'osso potremmo dire che Simone dice a Gesù: "Tu sei il Cristo", che
significa: "Tu sei il Messia che aspettavamo", una professione di fede bella e
buona e decisamente ardita.
Ardita, non mi stancherò di ripeterlo, perché Gesù non risponde ai canoni del
Messia atteso; niente patriottismo, né regalità, né comportamenti aulici e strabilianti.
Al contrario; un tono pacato, quasi dimesso, che dà una interpretazione del tutto
nuova del mistero di Dio.
Pietro fa un salto di qualità determinante nella sua vita, un riconoscimento che gli
cambierà la vita.
Gesù risponde: "Tu sei Pietro".
Il cambio di nome Simone-Pietro è probabilmente avvenuto qui.
Simone scopre il suo nuovo volto, una dimensione a lui sconosciuta, che lo porterà
a garantire la saldezza della fede dei suoi fratelli.
È stupendo questo dialogo, nella sua essenzialità; Pietro rivela che Gesù è il Cristo
e Gesù rivela a Simone che lui è Pietro.
Quando ci avviciniamo al mistero di Dio sveliamo il nostro volto; quando ci
accostiamo alla Verità di Dio riceviamo in contraccambio la verità su noi stessi.
Confessare l'identità di Cristo ci restituisce la nostra profonda identità.
Che bello!
Quanto siamo lontani (anni luce!) dalla visione di un Dio concorrente alla mia umanità.
Perché, in fondo in fondo, alcuni sono persuasi che aprendosi alla misericordia
di Dio quasi venga a mancare una parte della loro umanità.
Niente di più fasullo; se il Dio in cui crediamo ci fa decrescere in umanità non
è il Dio di Gesù Cristo.
Quanti, avendo seguito con più decisione la presenza del Signore Gesù, giungono
a dire che hanno imparato a diventare veramente uomini!
Non abbiamo paura, quindi, a fidarci di questo Dio che davvero ci può rivelare
a noi stessi, con semplicità ma con verità. Un'ultima annotazione su Pietro
e sul suo ministero.
Credo che dobbiamo avere il coraggio, parlando di Pietro, di mettere da parte
tutto il contorno che, inesorabilmente, offusca il ruolo del suo ministero attuale.
Che questo Papa mi stia più o meno simpatico, che condivida o meno il suo stile,
poco importa.
Purché assolva (e lo assolve!) il suo ministero.
Purché, cioé, sia qui a garantirmi che la fede in cui credo, è la fede che da sempre,
dagli apostoli in poi, la Chiesa proclama e professa.
Occorre ricuperare la dimensione teologica del carisma di Pietro.
Che il Signore ci accordi di vedere questa realtà con lo sguardo della fede!
Santa Domenica a voi amici, Fausto.


martedì 22 agosto 2017

Tanti discorsi e tante parole senza fondamento, fatte da giornalisti e commentatori TV, senza mai interpellare il diretto interessato, Mons. Hoser, ed allora ci ha pensato lui a chiarire le cose ora che il suo compito a Medjugorje è finito.

A MEDJUGORJE TUTTO VA NELLA GIUSTA DIREZIONE...
Così sembrerebbe affermare l'Arcivescovo Hoser inviato dalla Santa Sede
a Medjugorje per valutare la situazione pastorale di questo luogo
straordinario, dove arrivano ogni anno oltre 2.5 milioni di pellegrini.
L'Arcivescovo ha valutato in maniera molto positiva il lavoro pastorale
svolto dai Padri Francescani che da grandi frutti.
Alla domanda: "Le apparizioni saranno riconosciute?".
Monsignor Hoser risponde "Posso solo dire che le conclusioni sono positive,
il tutto suggerisce che esse saranno riconosciute, forse addirittura quest'anno".
(Breve riassunto di un'intervista rilasciata da Monsignor Hoser all'Agenzia

per l'Informazione Cattolica Polacca)

domenica 20 agosto 2017

Oggi il Signore ci dice che corriamo da Lui solo quando abbiamo bisogno d'aiuto, certo, ma Lui è sempre pronto ad aiutarci anche dopo anni che ci siamo allontanati.

Donna, davvero grande è la tua fede!
Dal vangelo secondo Matteo (15, 21-28) anno A.
In quel tempo, partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone.
Ed ecco una donna Cananea, che veniva da quelle regioni, si mise a
gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide.
Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio».
Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i discepoli gli si accostarono implorando: «Esaudiscila, vedi come
ci grida dietro».
Ma egli rispose: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della
casa di Israele».
Ma quella venne si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui dicendo: «Signore, aiutami!».
Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».
«E' vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole
che cadono dalla tavola dei loro padroni».
Allora Gesù le replicò: «Donna, davvero grande è la tua fede!
Ti sia fatto come desideri». E da quell'istante sua figlia fu guarita.
Parola del Signore.
Una parola che scuote
Gesù si è rifugiato nel sud dell'attuale Libano, la regione di Tiro e Sidone,
per fuggire la tensione che cresce intorno a lui, e qui è ambientato il durissimo
Vangelo di oggi.
Una donna-sofferente per la figlia ammalata-chiede un miracolo al Figlio
di Davide il quale, letteralmente, non le rivolge neppure la parola.
Una durezza confermata dal giudizio dato agli apostoli preoccupati dalla
sceneggiata fatta dalla donna; l’insistenza però è vincente; la donna si butta
ai piedi di Gesùe chiede aiuto.
La frase di Gesù è raggelante: “non è bene gettare il cibo dei figli in pasto ai cani”.
Un Gesù maleducato, quello che oggi ci presenta Matteo?
Un Gesù razzista che pensa-come i suoi contemporanei-che i non-ebrei siano “cani”?
No, amici, leggiamo bene, ve ne prego.
Come altrove nel Vangelo (Simone il Fariseo, la Samaritana…) Gesù sta per
darci una magistrale lezione di come far crescere le persone.
Leggendo meglio; la cananea si avvicina a Gesù sbraitando, invocando una
guarigione; non gli importa nulla di chi sia veramente Gesù, non è sua discepola,
solo vuole il miracolo del guru di turno.
Il Maestro non le rivolge neppure la parola, la sua ostinazione-però-è voluta.
La donna insiste, alla fine, esausta, si mette ai piedi del Signore e chiede solo
più aiuto… non impone più al Signore i termini dell'intervento (voglio che
accada questo) ma un generico e più autentico bisogno di aiuto.
La frase del Signore-durissima-è uno schiaffo in pieno volto: “Bel cane che sei,
non ti interessi di me, non segui la mia Parola, solo vuoi un miracolo.
Io, prima, devo occuparmi dei miei discepoli”; non è forse, troppe volte,
la nostra situazione?
Ci avviciniamo a Dio, che regolarmente ignoriamo, quando qualcosa non funziona,
quando abbiamo dei bisogni.
Lasciamo la nostra fede in uno stato di penosa sopravvivenza poi, quando la vita
ci chiede un qualche conto, ecco i ceri che si accendono e le devozioni che
si moltiplicano.
Quando non i ricatti: “Dio se esisti fà che succeda questo”.
E Dio tace, non ci rivolge neppure la parola.
Se però insistiamo, attenti, potremmo sentirci dire la stessa frase: “Bella
faccia che hai, te ne freghi di me e ora invochi un miracolo”.
Come avremmo reagito noi al posto della cananea?
Io mi sarei offeso e me ne sarei andato.
La donna cananea no, riflette, la guancia ancora le fa male, mette da parte
il suo amor proprio e confessa: “Hai ragione Signore, hai ragione; sono
proprio un cane, vengo da te solo ora che ne ho bisogno.
Però, ti prego, fai qualcosa”.
Me lo vedo il volto duro di Gesù che si scioglie in un accogliente sorriso:
“risposta giusta, questa volta, la tua fede ora produce miracoli”.
Che bello, amici, che bello!
Non sempre chi ti accarezza ti ama, non sempre chi ti fa dei complimenti
desidera il tuo bene.
Alle volte, il Vangelo di oggi lo dimostra, anche uno schiaffo ci richiama a verità.
La Parola si apre ad un'ulteriore prospettiva di accoglienza universale
dei “diversi”, degli stranieri.
Isaia ricorda a Israele che ogni uomo è straniero, perché la terra è di Dio.
Perciò Israele è chiamato ad essere ambasciatore di Dio presso l'umanità,
perché ogni uomo sia colmato di gioia nella casa di preghiera.
E Paolo ricorda ai romani, pagani di origine, di avere grande affetto verso
Israele perché la chiamata di Dio è irrevocabile.
Un Parola che ci guarisce dalle derive xenofobe che aleggiano nella nostra
Europa; problema non facile da affrontare, certo, quello dell'immigrazione,
ma che va comunque dibattuto dal punto di vista della Scrittura; tutti siamo
stranieri davanti a Dio.
E chi sa che la nostra testimonianza, come lo è Israele, come lo è Gesù, non
diventi per il fratello non credente stimolo alla riflessione e all'accoglienza del Rabbì.
Sapete amici perché oggi ho messo questa riflessione?
Semplicemente perché un fatto simile mi è capitato proprio ieri.
Un amico è venuto a trovarmi piangendo dicendomi: “Ieri all’ospedale mi
hanno diagnosticato un tumore maligno, sono disperato”.
Non è un ragazzino, ha la sua bella età, diviso dalla moglie per colpa delle sue
amicizie femminili, ora si trova in difficoltà e sta cercando aiuto, anche dalla moglie.
Abbiamo chiacchierato un pò, gli ho dato la mia disponibilità se ha bisogno di aiuto,
poi prima di andarsene mi guarda negli occhi e mi dice: “So che tu conosci tanti
sacerdoti, mi accompagneresti da uno che mi possa capire; voglio confessarmi,
gli ho risposto: “Quando vuoi?”.
Perciò, questa riflessione sul Vangelo di oggi, mi è sembrata appropriata.
Santa Domenica a tutti voi amici, Fausto.


lunedì 14 agosto 2017

Maria, colei che ci indica la strada per il cielo.

Dal Vangelo secondo Luca (1,39-56) anno dispari.
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa,
in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò
nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta
tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!
A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?
Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato
di gioia nel mio grembo.
E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta
in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; di
generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come
aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Parola del Signore.
Discepola del Signore
Ferragosto: il cuore dell’estate, la gente che affolla le mete vacanziere.
Ed anche quest’anno celebriamo la festa dell’Assunzione di Maria, festa che
ci richiama all’opera di Dio in Maria di Nazareth, discepola del Signore.
Non vi nascondo, però, un sottile disagio a parlare di Lei.
La ragione principale è la sua connaturale timidezza, di ragazza di paese,
quindicenne, abituata a lavorare in silenzio, lontano dai palchi delle veline.
La seconda ragione del disagio è un’eccessiva devozione nei confronti di
Maria, fatta in buona fede, ovviamente, ma pericolosa.
Pericolosa perché nei fratelli in cerca di Dio, ai catecumeni che vogliono
passare dal cristianismo al discepolato, tutto questo eccesso di zelo frastorna.
Il rischio?
Di sottolineare le così tante straordinarietà della madre di Gesù dal finire
coll’allontanarla anni luce dalla (povera) concretezza della nostra vita.
Insomma; il più grande torto che possiamo fare a Maria è metterla in una
nicchia e incoronarla con una corona d’oro!
Da ridere, al solito; Dio ci dona una discepola esemplare, una donna (Forte Dio,
in un mondo di maschilisti pone una donna a modello!) che, per prima, ha
scoperto il volto del Dio incarnato, e noi subito a metterla sul piedistallo,
santa stratosferica da invocare nei momenti di sofferenza.
Per favore, no!
Maria ci è donata come sorella nella fede, come discepola del Signore, come
madre dei discepoli.
Il cuore del suo cammino è narrato da Luca, in quella corsa frenetica,
tumultuosa, che Maria compie all’indomani dell’annuncio dell’angelo.
Non gli aveva forse detto, l’angelo, della gravidanza della sua vecchia cugina?
Maria parte volentieri da Nazareth, ha bisogno di riflettere, di capire.
Ha paura di essersi sbagliata, di avere avuto un colpo di sole.
Possibile? Il Messia verrà? Possibile?
Lei è stata scelta come madre?
Maria sale a sud, due giorni di viaggio, pensieri che affollano la mente.
Forse è in compagnia di Giuseppe, non era opportuno che le donne
viaggiassero da sole.
In una pittura dell’ottocento un pittore immortala l’incontro fra le due donne.
In secondo piano, dell’affresco della volta, Zaccaria e Giuseppe si fanno un
cenno con la mano, un po protagonisti marginali di questo affare misterioso
di donne che è la maternità, mistero che estranea un po noi omaccioni.
E l’incontro tra la matura Elisabetta e l’adolescente Maria è un’apoteosi,
un fuoco d’artificio.
Solo loro sanno, solo loro capiscono, i servi e i famigliari guardano attoniti
queste due donne che ridono e si abbracciano e piangono di gioia.
Roteano nella polvere, ora, Elisabetta solleva in un abbraccio la piccola
Maria: “Come sei cresciuta!
Che bella che sei!”; poi la posa, la guarda scuotendo la testa: “Come hai
fatto a credere, Maria?”.
Sì, Maria, anche noi lo ripetiamo, scuotendo la testa; come hai potuto credere
che davvero Dio diventasse sguardo e sudore e calore nel tuo ventre?
Come hai fatto a credere che–sul serio–Dio avesse bisogno di te, e di noi,
per salvare l’umanità?
Come hai fatto a credere che il tuo acerbo ventre contenesse l’Assoluto?
Beata te che hai creduto Maria.
Beati noi, fragili discepoli, che sentiamo l’orgoglio riempirci di lacrime gli
occhi e la nostalgia della santità mozzarci il fiato, tu sei figlia della nostra
umanità, tu sei il riscatto delle nostre tiepidezze.
E Maria canta e danza roteando nella polvere.
Allora è tutto vero, ciò che ha visto era davvero il messaggero di Dio, allora tutte
le stanche e impolverate profezie ascoltate in sinagoga, si stavano realizzando.
Dio non si è stancato del suo popolo, Dio non l’ha abbandonato, non ci ha
abbandonato, Dio è presente.
La danza finisce in un canto, lo stupore della logica di Dio che prende una
quindicenne illeterata, figlia povera di una terra occupata, in un tempo senza
internet e networks, per salvare l’umanità.
Ecco, amici, questa è la festa dell’Assunzione, la storia di una discepola che
ha creduto davvero nella Parola del suo Dio, che insegna a noi, tiepidi credenti,
l’ardire di Dio, la follia dell’Assoluto.
Questa donna, noi crediamo, dopo la lunga esperienza di una fede abitata dal
Mistero, è andata, prima tra i credenti, al Dio che l’aveva chiamata.
Non poteva conoscere la corruzione della morte colei che aveva dato alla luce
l’autore della vita.
Siamo in buona compagnia, amici!
Lasciamoci fare, allora; grandi cose ha fatto Dio in Maria; grandi cose può
fare in noi, se lo lasciamo fare.
Santa Festa dell’Assunta a tutti voi amici, Fausto.

domenica 13 agosto 2017

Ecco l'esempio della nostra vita amici, una piccola barchetta che spesso a causa delle onde tempestose della vita è sballottata di quà e di là e rischiamo di affondare, e solo il Signore ci può aiutare, come fece con Pietro.

Dal Vangelo secondo Matteo (14,22-33) anno A.
[Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire
sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla.
Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare.
Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde:
il vento infatti era contrario.
Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare.
Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un
fantasma!» e gridarono dalla paura.
Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso
di te sulle acque».
Ed egli disse: «Vieni!».
Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù.
Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare,
gridò: «Signore, salvami!».
E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede,
perché hai dubitato?».
Appena saliti sulla barca, il vento cessò.
Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero
tu sei Figlio di Dio!».

Parola del Signore.
Pietro, Elia, il popolo di Israele; oggi la Parola ci presenta questi tre modelli
di discepolato con cui confrontarci nella concretezza della nostra vita di fede.
Il Vangelo, anzitutto; Gesù fugge il delirio della folla che lo vuole fare re, dopo
la moltiplicazione dei pani e dei pesci, e si rifugia nella preghiera, da solo,
sulla montagna.
Gesù non ama essere considerato un fenomeno da baraccone, non vuole una
fede-che spesse volte ahimé è la nostra-basata sui miracoli.
Pietro e gli altri devono nuovamente attraversare il lago di Tiberiade e lì, sul
fare del mattino, vengono investiti dalla tempesta.
Questo racconto è un'icona della Chiesa; aspettando il ritorno del Maestro,
anche noi dobbiamo attraversare la Storia su di una fragile barca sballottata
dai venti.
Ma è quasi mattino, fratelli.
Questi duemila interminabili anni di cristianesimo hanno rappresentato una
dura prova di fede per i cristiani; spesse volte dimenticando il Vangelo,
spesse volte travolti dalle persecuzioni (che continuano!) i discepoli hanno
assaporato e assaporano la fatica della fede vivendo tra le persecuzioni del
mondo e le consolazioni di Dio.
Come ciascuno di noi d'altronde; appena la Parola gettata dal seminatore
attecchisce, pur convivendo con la zizzania che tende a soffocarla, ci mettiamo
alla ricerca della perla preziosa nel segno della condivisione e-state certi-arriva
una qualche prova nella fede.
Una sofferenza, una stanchezza, una depressione; il vento gelido del dubbio,
l'assenza del Maestro (sì esiste, ho incontrato il suo sguardo di compassione,
ma ora è assente) ci allontanano dalla fede, ci restituiscono il vortice
dell'inesorabile quotidianità, ci rendono pagani.
Così Elia, dopo avere sfidato la regina Gezabele e il suo culto idolatrico a Baal,
deve fuggire per non essere ucciso e vorrebbe morire, così Pietro e gli altri turbati
dal vento contrario, stanchi di remare, così noi, fragili discepoli chiamati a
sopravvivere dentro una modernità che anestetizza la nostra interiorità
e ci allontana dal sé e dal vero.
Ma proprio quando l'onda è alta su di noi, proprio quando ci sembra di essere
sconfitti, qualcosa accade.
Gesù cammina sulle acque tempestose e ci ripete: "coraggio, sono io, non
abbiate paura".
Pietro si tuffa, anche lui vuole camminare sulle acque, sulle difficoltà; si fida,
muove i primi passi e poi miseramente sprofonda nel lago agitato.
E Gesù, garbatamente, lo prende per mano.
Davanti ai dubbi di fede, davanti alle tempeste della vita, il discepolo è chiamato,
come Elia, ad ascoltare nel suo cuore il silenzioso mormorio di Dio, recuperando
quella dimensione assoluta che è il silenzio, la preghiera, l'ascolto meditato del
grande e quieto oceano della presenza di Dio.
Troppo pagano è diventato il nostro cristianesimo, troppo efficentista,
troppo rumoroso.
Urge riscoprire un modo nuovo di pregare e meditare, un modo che attinga
all'immensa tradizione cristiana usando parole nuove, adatte alla sfida attuale.
Come Pietro, il discepolo è chiamato a gettarsi nelle braccia di Dio, sul serio.
La fede è fidarsi, la fede è slancio nel vuoto, la fede è concreto abbandono.
Ma troppe volte la nostra è una fede condizionata, tentennante, dubitativa;
lasciamo aperta una via di fuga, convinti ma non troppo.
E allora beviamo.
Quando la smetteremo di tenere in mano il timone della nostra barca invece
di affidarlo a Dio?
Fidati, affidati, confida, diffida delle tue (piccole e fragili) sicurezze.
Infine Paolo ci indica la fedeltà di Israele come modello; una fedeltà da imitare,
una custodia della Parola che ammiriamo, fedeltà conservata con tenacia nella
continua tempesta che Israele ha attraversato (e noi cristiani pure a bucargli la barca!).
I nostri fratelli maggiori, amati, vivono ancora e sempre della fiducia nel Dio
dell'Alleanza, di generazione in generazione.
Animo, dunque, altri hanno già vissuto ciò che viviamo, altri hanno già attraversato
il mare in tempesta.
Naturalmente se vogliamo riuscirci, dobbiamo fidarci davvero
del Signore, amici da Fausto.


sabato 5 agosto 2017

Oggi amici è il giorno per trasformarci, diventare veramente innamorati del Signore.

Dal Vangelo secondo Matteo (17,1-9) anno A Trasfigurazione.
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello
e li condusse in disparte, su un alto monte.
E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti
divennero candide come la luce.
Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui!
Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra.
Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato:
in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi
da grande timore.
Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete».
Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di
questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
Parola del Signore.
Quando si sale sulla montagna, malgrado la fatica, ciò che ci spinge a salire
è la gioia che proveremo nello spaziare con lo sguardo oltre le cime, magari
innevate, un sensazione indescrivibile.
Anche Pietro e gli altri sono esterrefatti da quanto accade, non c’è la neve
sul Tabor, ma c’è Gesù maestro, profeta affascinante, si rivela per quello
che è; ed è un’esperienza travolgente, di bellezza sconfinata.
Quanto dobbiamo recuperare questa dimensione della bellezza nella
nostra vita cristiana!
Gli apostoli, inaspettatamente, si ritrovano a contemplare Gesù di Nazareth
che si rivela loro nella sua forma più autentica di Figlio di Dio.
Sembra quasi un’anticipazione della Resurrezione che, forse, nell'intento del
Signore, serviva a dare agli ignari apostoli quel po di coraggio necessario
per affrontare il grande scandalo della croce.
Alla fine della trasfigurazione gli apostoli non vedono che “Gesù solo”.
Certo; il momento in cui raggiungiamo attraverso la preghiera e la contemplazione
il volto di Gesù Risorto, vivo qui e adesso, e ci troviamo davvero scossi e
scombussolati da una tale manifestazione, non vediamo che Gesù solo.
Solo Lui nelle nostre scelte, nei nostri fratelli, nelle nostre giornate.
Più volte lo abbiamo detto e ancora lo ripetiamo; la fede non è semplice
adesione intellettuale, è coinvolgimento radicale, esperienza misteriosa di
questo Dio che è altro da noi (non sentimento, non impressione, non scelta
ma manifestazione).
Di questa esperienza i cristiani parlano, a questa esperienza vogliono
condurre nel misterioso intreccio delle libertà (mia e di Dio) ogni fratello
che si lascia avvicinare dal Vangelo.
Nessuna apparizione, per carità (Dio vi preservi dalle apparizioni!) ma la
semplice possibilità di fare esperienza interiore tangibile ed inequivocabile
della bellezza di Dio.
Pietro Giacomo e Giovanni, da ora in avanti, avranno sempre e per sempre
impresso quel volto trasfigurato, quel Dio ora chiaramente leggibile nella
natura più profonda.
È questa forte esperienza che manca, spesse volte alla nostra tiepida fede.
Perciò molti vivono la fede come scelta necessaria, doverosa, utile anche se
immensamente noiosa.
Senza Tabor, il cristianesimo manca della sua dimensione essenziale;
la bellezza di Dio.
Sapete perché scrivo queste cose, amici?
Perché non ho trovato nulla di più bello di Cristo.
Dovremo forse ricuperare questo aspetto nella nostra vita cristiana,
ripartire dalla bellezza.
Le nostre periferie sono orrende, orrende le città, orribili le finte-vacanze che
ci vengono proposte in mezzo a finti paesaggi immacolati.
Orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono dal mondo della
politica e dello spettacolo.
Abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che
è verità è bene e bontà.
Non è forse questa la fragilità della nostra fede contemporanea?
Non è forse questa la ragione di tanta tiepidezza della nostra comunità?
Non abbiamo forse smarrito la bellezza nel raccontare la fede?
Nel celebrare il Risorto?
E’ noioso credere.
È giusto–certo–ma immensamente noioso.
Il Vangelo di oggi ci dice, al contrario, che credere può essere splendido.
Varrebbe la pena di ricuperare il senso dello stupore e della bellezza,
l’ascolto dell’interiorità che ci porta in alto, sul monte, a fissare lo
sguardo su Cristo.
Facciamo delle nostre messe dei luoghi di bellezza; il silenzio, il canto,
la fede, il luogo in cui preghiamo, può riportare un briciolo di bellezza
nella nostra quotidianità.
Ma questa inaudita e straordinaria esperienza, non è merito nostro o nostra
conquista; è dono totale e gratuito di Dio che ci “dona ogni cosa” nel
suo figlio Gesù.
Fidiamoci, partendo, come fece Abramo che seguì l’invito di un Dio di cui
non sa nulla.
Partire significa credere in questo Dio di cui mi fido e che mi invita a
compiere gesti che a volte non capisco in profondità, rinunciando ai miei
progetti per accogliere il suo Progetto.
È il salto della fede, il fidarsi ciecamente di qualcuno su cui ho scommesso tutto.
A volte non capiamo, stentiamo, tentenniamo, obbiettiamo.
Ma poi ci fidiamo.
E questo fidarsi, dura prova nella nostra vita, ci farà morire ai nostri progetti
per diventare così, secondo la promessa, padri di una moltitudine; i credenti,
appunto, che, dopo di noi, rifaranno questo percorso di fiducia per
arrivare fino a Dio.
Tabor, quindi, come meta della nostra esistenza.
Per non vedere che “Gesù solo” occorre fidarsi, rinunciando al nostro egoismo,
salire (faticosamente!) dietro al Maestro per riconoscerlo come Messia.
Questa mortificazione-vivificazione ha in gioco la presenza stessa di Dio!
Perciò, ripartiamo dalla bellezza, amici.
Santa Domenica della Trasfigurazione, Fausto