Ultima Domenica del Tempo Ordinario 24 Novembre 2018.
Una non festa conclude il nostro
anno liturgico, una festa all’apparenza solenne,
che parla di re, che parla di
trionfi, che rispolvera–forse–antichi fasti di una
chiesa militante in perenne
scontro col potere mondano, potere talora
segretamente desiderato, talora
contrastato, che immagina, forse ingenuamente,
una vittoria definitiva di Cristo
più ambita che realizzata.
Una festa che richiama
un’improbabile sovranità di Cristo, un happy end di
cui abbiamo fortemente bisogno
per guardare all’anno appena trascorso e
rilanciare l’anno che sta per
iniziare.
Ma a leggere il vangelo si resta
spiazzati, come al solito.
Due poteri sono a confronto;
quello di Roma imperiale e del suo rappresentante,
il procuratore Ponzio Pilato e
quello meschino e risibile del falegname di
Nazareth che si è preso per Dio.
L’immenso Giovanni nel capolavoro
del dialogo fra Gesù e Pilato mette in
scena una vera e propria
rappresentazione teatrale; Pilato si crede forte,
pensa di avere tra le mani questo
fantoccio, disprezza Lui e tutti gli ebrei che
lo costringono ad usare il pugno
di ferro e che, ci narra la storia, diverranno
la pietra d’inciampo nella sua
carriera verso il Senato.
Si diverte, Pilato, a prendere in
giro questo misero falegname che ha perso
anche l’appoggio dei suoi
superiori religiosi.
Scherza, irride, gli propone un
dialogo all’apparenza giusto, finge giustizia
ed equità.
Il potere spesso diventa farsa e
burla, difende solo se stesso e si contrappone
a chi lo ostacola.
I sadducei e i sacerdoti del
tempio devono chiedere permesso all’odiato Pilato
che detiene, il diritto di morte
per sbarazzarsi dell’ingombrante Nazareno.
Il Sinedrio vuole uccidere Gesù
ma non può.
Pilato vuole salvare Gesù per
umiliare il Sinedrio ma non può.
Entrambi faranno ciò che non
vogliono.
Il compromesso, la paura, il
calcolo li fanno diventare burattini delle loro
ambizioni, Pilato, durante tutto
il colloquio, pone solo domande.
Non si interroga; ma interroga.
E non ascolta le risposte.
Tu lo dici “Sei re?” - “Tu lo
dici” risponde Gesù a Pilato.
“Sei il Figlio di Dio Altissimo?”
- “Tu lo dici” risponde altrove Gesù
al Sommo Sacerdote.
“Tu lo dici”: siamo liberi di
credere o no, Dio non si impone, mai.
Anzi, l’apparenza inganna: questo
uomo sconfitto non assomiglia in alcun
modo ad un re, men che meno ad un
Dio.
Sarà sempre così; il nostro Dio
si nasconde, ci lascia liberi, smuove le nostre
coscienze, chiede a noi di
schierarci, ci costringe alla scelta.
Il potere che Gesù viene ad
esercitare è il potere a servizio della verità.
Che non nutre se stesso, che non
si autocelebra, che fugge la gloria e l’apparenza.
Che razza di re ci è capitato,
amici, un re da burla che entra a Gerusalemme
cavalcando un asinello e non un
cavallo bianco, un re oltraggiato e preso in giro
da annoiati soldati romani, un re
che suscita la compassione e il disprezzo
dell’irrequieto governatore
Pilato.
Che razza di re, senza armate,
senza potere, senza rabbia, senza delirio di onnipotenza.
E subito il nostro entusiasmo si
smorza, subito i nostri segreti sogni di una
eclatante vittoria del bene sul
male si ridimensionano.
No, non andrà così, non va così
né ora né mai.
Dio ha scelto di stare dalla
parte degli sconfitti, dei dimenticati, re-certo-ma
dei perdenti e re senza riscatto,
re senza trionfi, re senza improbabili finali da
commedia americana.
Un re nudo, appeso ad una croce,
crudele trono, cinto da una corona di spine,
un re talmente sconvolto da avere
necessità di un cartello che lo identifichi, che
lo renda riconoscibile almeno
alle persone che l’hanno amato.
Questa è la non festa che
celebriamo, che abbandona i trionfalismi per lasciare
spazio alla meditazione, allo
stupore.
Questo è il nostro re, discepoli
del Nazareno.
Lo vogliamo davvero un Dio così?
Un Dio che rischia, un Dio
che-per amore-accetta di farsi spazzare via
dall’odio e dalla violenza?
Lo vogliamo davvero un Dio che
rischia tutto, anche di essere per sempre
dimenticato, pur di mostrare il
suo volto?
Un Dio che accetta di restare
nudo, cioè leggibile, incontrabile, osteso, palese,
evidente perché ogni uomo la
smetta di costruirsi improbabili devozioni,
scure visioni di Dio?
Questo è il nostro Dio, un Dio
amante, un Dio ferito, un Dio che fa dell’amore
l’unica misura, l’ultima ragione,
la sola speranza.
Se discepoli di questo Dio,
facciamo bene a guardare spesso a quella croce
segno universale d’amore, non
partigiano o settario segno di appartenenza
religiosa, ma misura dell’amore,
modello del dono.
Se discepoli di questo re, non
potremo sopportare nei nostri atteggiamenti
ombre di dominio, stonature,
fratture nei nostri rapporti.
Se discepoli, il potere nella Chiesa,
tra noi, con i fratelli uomini, sarà sempre
e solo servizio e l’ultimo
giudizio, nella morale, nella prassi del nostro essere
cristiani, sarà sempre e solo
l’amore.
Se discepoli sappiamo che la
Storia finirà bene, finirà in luce, finirà nelle
braccia del Maestro e questa
Storia la vogliamo leggere e costruire nelle pieghe
delle nostre piccole infinite
storie, la vogliamo prendere come metro di giudizio
delle cose e delle persone.
Se discepoli abbiamo fiducia
perché abbiamo sperimentato sulla nostra pelle la
misura colma del suo amore
devastante e rigenerante, fecondo e pieno di luce.
Se discepoli siamo chiamati a
costruire succursali del Regno, luoghi in cui la
diversità è ricchezza e l’amore
l’unica legge.
L’amore l’unica legge, amici.
Senza ingenuità, senza sconti,
senza paure, l’amore diventa la misura del nostro
essere, metro delle nostre scelte
pastorali, scelte del nostro irrequieto vivere.
Chiuso l’anno, grazie fratello
Marco, discepolo di Pietro, per le belle cose che
ci hai fatto vivere, per il volto
semplice e immediato di Gesù sperimentato dal
rude pescatore di Cafarnao.
Da domenica prossima incontreremo
Luca, lo scriba della mansuetudine di Cristo.
Santa Domenica di Cristo Re
dell’Universo, Fausto.