giovedì 2 aprile 2015

Nel Cenacolo con Gesù.
Gesù mandò alcuni discepoli in città e disse
loro: “Appena entrate in città, vi verrà incontro
un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo………
Egli vi mostrerà una sala al piano superiore,
grande e addobbata; là preparerete”.
Essi andarono e trovarono tutto come aveva
loro detto e prepararono la Pasqua.
Parola del Signore.
In quella sala, Gesù desiderò celebrare la sua ultima
Pasqua ebraica e la sua prima Pasqua cristiana.
Dunque il Cenacolo situato sulla collina di Sion,
non è una sala qualsiasi ma una chiesa, la chiesa fondata
da Gesù, la chiesa di Gesù e nostra prima chiesa cristiana.
Dopo quel primo giovedì Santo in quella sala—che fu
Risparmiata anche dalla distruzione di Gerusalemme—il
culto cristiano si è svolto ininterrottamente per anni
e anni; per anni e anni i pellegrini sono entrati in quella
sala per venerarla come Madre di tutte le chiese, ma
anche come culla della chiesa nascente, conchiglia
dello Spirito Santo, primo Tabernacolo e Santuario
della devozione cristiana.
Allora ci domandiamo; quali erano i sentimenti di Gesù,
 quando varcò la soglia di quel luogo?
Io i sentimenti di Gesù ho cercato di intuirli
attraverso il Vangelo.
Il Vangelo ci narra che quando era a Gerusalemme,
 il Signore insegnava ogni giorno nel tempio;
e di notte usciva per pregare e stava sul monte degli
Ulivi; ma già fin dal mattino tutto il popolo lo cercava
per ascoltarlo; dovunque si spostava le folle lo seguivano,
perché questo grande Rabbì compiva grandi prodigi,
misteri gratificanti ed esaltanti.
Quando però Gesù ha parlato di misteri dolorosi,
di misteri scandalosi, quando ha parlato di croce, di morte,
di umiliazione, allora le folle gli hanno voltato le spalle:                                                                   “Quelle parole dice il Vangelo, chi poteva sostenerle?”.
Questo, è il prologo!
Allora con quale animo quella sera Gesù sarà entrato in                                   
quella sala sapendo che; “da Dio era venuto e a Dio ritornava?”
Io credo che Gesù, quel giovedì Santo, sia entrato nel
Cenacolo con una piccola speranza; la speranza che
almeno quel residuo, di dodici uomini accogliesse il mistero
di quell’ultima Cena; che non si scandalizzassero; che
non lo abbandonassero; che resistessero alla prova: Gesù
doveva infatti provarli, doveva sapere se erano disposti
a credere in un maestro, Figlio di Dio,                                                                                                     che lava i piedi ai discepoli e riassume in quel gesto                                              
tutta la follia delle Beatitudini; doveva sapere se erano
disposti a credere nel Dio dell’Eucaristia e, cioè in un
Dio che vuole soffrire e morire per riscattarci;                                             
che vuole alimentarci non solo nello spirito ma anche
nel corpo, facendosi pane per tutti, per ogni tempo;                                                                
Gesù doveva sapere se erano disposti a credere in un
Dio che affida la sua nuova ed eterna alleanza al
sacerdozio, di uomini impreparati e peccatori.
Giuda non superò quella prova e fuggì…                                                                       
Gli altri undici restarono, nonostante lo
sbigottimento; restarono per; “aver parte” con Cristo.
“Anche se tutti si scandalizzassero di Te, io non
mi scandalizzerò mai”, rispose Pietro a Gesù quella sera.
Pietro aveva queste repentine folgorazioni e capiva che il                                
requisito fondamentale per aver parte con Cristo era quello
di non scandalizzarsi di lui; e quando Gesù gli propose
lo scandalo della lavanda dei piedi come condizione
per essere con lui, esclamò: “non solo i piedi ma
anche le mani e il capo!”
Pietro intuiva che il discepolo di Cristo deve anzitutto
piegarsi al maestro, deve esercitare la fede, deve insomma
avere lo spirito pronto anche se la carne è debole.
La carne di Pietro era debole ma il suo spirito poteva
pronunciare gli attestati di fede più sconvolgenti:                                                                       “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”.                                                               
E ora: “Io non mi scandalizzerò mai!”
Questa frase di Pietro può essere presa per chiave
d’ingresso al Cenacolo; perché nel Cenacolo Cristo ci
attende, non per chiederci se la nostra carne è debole
ma, per chiederci se il nostro spirito è pronto.
Da quel giovedì Santo il Signore, continua a dare
appuntamento nel Cenacolo a tutti i suoi, a tutti noi,
per verificare la nostra fede; ognuno di noi viene provato.
Perciò io dico; se non sappiamo accettare un Dio che
sconvolge; se non sappiamo benedire le sue vie anche
quando non sono le nostre vie; se non sappiamo
capire che le sue ragioni non sono le nostre ragioni;                 
se non sappiamo confidare in questo Dio che tollera
tutto ciò che a noi sembra intollerabile; cioè l’intollerabile
dolore nel mondo, l’intollerabile ingiustizia, l’intollerabile
corruzione, l’intollerabile sfortuna dei buoni e la fortuna
dei cattivi, l’intollerabile sofferenza e la morte dei più piccoli;                                              
se non sappiamo credere che il mistero di Dio è sempre
un mistero d’Amore finalizzato all’Amore senza fine,                                                           
allora vi dico non entriamo nel Cenacolo; fuggiamo come
fuggì Giuda, perché non potremo, “aver parte”, con il Dio
del Cenacolo; nel Cenacolo si entra con la fede a prova di
mistero o non si entra; in quella chiesa ci aspettano i
misteri vertiginosi della nostra fede, misteri inviolabili.
Se la nostra fede resiste anche quando la nostra mentalità
è calpestata; se la nostra fede resiste anche quando la
nostra carne è ferita; se la nostra fede resiste anche
quando Dio ci chiede troppo, allora e soltanto allora
possiamo dire che la nostra fede è Fede, e possiamo
sperare di, “aver parte”, con il Signore.
Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e,                              
che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola,
depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno
alla vita; poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare
i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui
si era cinto; venne dunque da Simon Pietro e questi gli
disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”                                                                         
Rispose Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci,
ma lo capirai dopo”.                          
Gli disse Simon Pietro: “Non mi laverai mai i piedi!”                                                                           Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”.
Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi, ma
anche le mani e il capo!” (Giovanni 13. 3-9)
Questo brano è paragonabile ad un cielo stellato, più noi
fissiamo le stelle più ne vediamo, è una visione ottica e
questo dovrebbe accadere nel nostro animo, più noi
fissiamo il nostro pensiero a quello che è accaduto nel                   
Cenacolo il giovedì Santo e più scopriamo qualche nuova
luce, qualche bagliore nuovo, è come se nel Cenacolo
divampasse un incendio di luci.
Quei grandi eventi si aprono con il gesto solenne di Gesù,                                         
che all’inizio della cena depone il mantello, versa dell’acqua
in un catino e comincia a lavare i piedi ai discepoli.
Non so se sapete che a quell’epoca la legge diceva che:
“Non ti lascerai mai lavare i piedi, non permetterai mai
a qualcuno di lavarti i piedi”.
Al tempo di Gesù, neppure gli schiavi erano obbligati a                                  
compiere questo servizio umiliante; perciò ogni israelita
osservante e tanto più un Rabbì avrebbe rispettato
questa tradizione.
Invece il Rabbì di Nazaret, il Maestro dei dodici, la infrange
fino al punto di compiere lui stesso questo servizio.
“Quante luci risplendono in quel gesto così significativo!”       
Il primo significato che si potrebbe cogliere, credo sia
questo; nessuno, né discepolo, né maestro, né schiavo,                                              
nessuno deve sentirsi umiliato nel compiere un atto di carità.
Se un nostro fratello ha i piedi stanchi, polverosi, bisognosi
del nostro sollievo, con letizia dobbiamo chinarci e servirlo;                                                         nessuna legge o consuetudine umana può esentarci dalla carità.
Agli occhi di Dio non sarà mai umiliante un gesto suggerito                                  
dalla legge del cuore, la legge divina è sempre dalla parte
del cuore umano; lo sapeva San Francesco che baciava i
lebbrosi emarginati dalla società, lo sapeva Madre Teresa
che raccoglieva gli impuri, i dimenticati, i moribondi più
ripugnanti e lo sanno i; “giusti” di ogni tempo che hanno
stimolato i popoli a mettere più cuore nelle loro leggi, 
che hanno combattuto contro le leggi ingiuste, le leggi
schiaviste, razziste, abortiste, le leggi dell’egoismo;                                                                  
lo sanno i Santi che hanno inventato le scuole per i poveri,                                    
gli ospedali per gli ammalati, gli ospizi per i senza tetto,                                         
le case per gli orfani, anche quando questa carità non
era nelle leggi degli uomini.
Il gesto di Gesù ci insegna che la carità è una legge più
grande di ogni legge umana e che il cristiano deve obbedire
alla legge della coscienza prima di ogni altra legge.
Subito dopo questo significato, direi che ne affiora un
altro non meno importante.
Con la lavanda dei piedi Gesù ci insegna che la carità
va fatta in proprio, che non possiamo dispensarcene;                                                            
nella carità, il servo sia come il padrone, il Rabbì come
il discepolo, il ricco come il povero, il giovane
come il vecchio.
La carità è la madre degli uomini e non c’è prestigio                                                  
personale che esoneri un figlio dall’obbedire a questa madre.
E andiamo allora ancora più in profondità; Gesù si
china sui piedi dei discepoli; i piedi non sono il volto,                                                                 
non sono una parte attraente dell’uomo; i piedi di
Giovanni non avevano la gentilezza del suo volto;                               
i piedi di Filippo non attraevano come i suoi bei
lineamenti greci; i piedi di Pietro non conquistavano
come i suoi slanci generosi.
I piedi sono una miseria al confronto; eppure Gesù si
inginocchia davanti a tanta miseria per insegnarci a servire
i fratelli senza guardare al loro volto, senza guardare a
simpatie, a preferenze, ad attrattive, senza cercare
alcuna gratificazione.
Ma c’è un’altra lezione da imparare che è quella di
inginocchiarsi; saper imparare a inginocchiarsi nel
servizio ai fratelli ma, a sua volta, ogni fratello deve
sapere accettare la carità altrui con gratitudine e
semplicità, come Gesù insegnò a Pietro che non
voleva farsi lavare i piedi.
Può darsi che un giorno tocchi a noi ad aver bisogno
che ci lavino i piedi, il capo e le mani, o che ci imbocchino,
o che ci vestano.
Gesù ci insegna che per, “aver parte”, con Lui bisogna 
saper fare la carità ma anche saper
riceverla; la carità va fatta con dolcezza e umiltà ma va
anche ricevuta con dolcezza e umiltà.
Quanta luce emana quel gesto di Gesù!
Se l’ultima Cena è la prima Messa nel mondo, allora la
lavanda dei piedi è la prima omelia al mondo.
Ascoltiamola con commozione e raccoglimento; e
facciamo tesoro della sua conclusione, cioè delle parole
che disse Gesù: “Anche voi, fate come io ho fatto a voi!”
È un invito che non è limitato alla lavanda dei piedi,                                               
ma vuole essere un invito molto più ampio, vuol dire;                                                
in ogni cosa comportiamoci come si comporterebbe Cristo;                                      
impariamo ad essere liberi da tutto e schiavi solo di Cristo.
In ogni cosa, chiediamoci cosa farebbe Cristo e facciamolo.
Imitiamo Cristo! È questa la regola d’oro della carità.
Quando ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette
di nuovo e disse loro: “Sapete ciò che vi ho fatto?”            
Ogni volta che abbiamo meditato la lavanda dei piedi,                                
l’abbiamo sempre meditata come una lezione sulla carità,
giustamente, eppure sembra che non ne abbiamo ancora
appreso tutti i significati; sembra che il Signore continui
a rivolgere anche a noi la domanda che rivolse agli apostoli:                                                        “Capite che cosa vi ho fatto?”.
Prima di rispondergli, proviamo a riflettere e a chiederci;                                           
si può trarre un insegnamento più profondo in quel gesto che
appare soltanto un emblema della carità verso il prossimo?
Cos’altro dobbiamo capire della carità?
Per tentare di capire, cominciamo col tornare indietro a una
lavanda di piedi e a una cena precedente, dove sembra che
Gesù sminuisca il valore delle opere buone verso il prossimo.
È la cena di Betania!
Gesù vi prende parte insieme a Giuda e ad altri discepoli.
Durante il convito interviene Maria, che prese una libbra di                                    
essenza di nardo da un vaso prezioso, unge il capo


e i piedi di Gesù.
Tutta la casa si riempie della fragranza di quel profumo.
Giuda però osa esprimere il suo disappunto; e lo fa con un
argomento che avrebbe dovuto chiudere la bocca al suo
Rabbì: “Non era meglio che si vendesse quell’unguento per
darne il ricavato ai poveri?”
Ma ancora una volta, Gesù rovescia la situazione e fa a
pezzi le certezze di chi lo circonda: “Lasciatela stare, dice,                                                                essa ha compiuto un’opera buona verso di me; i poveri li
avete sempre con voi, ma non sempre avete me; dovunque
sarà annunziato il Vangelo in tutto il mondo, si narrerà
ciò che essa ha fatto”.
Poi, Gesù sottolinea un altro punto importante:                                                                                    “Ciò che poteva fare, ella lo ha fatto, ungendo in
anticipo il mio corpo per la sepoltura”.
È questo il punto che volevo fare affiorare.
A questa mensa Gesù insegna che le occasioni per offrire                                             
a Dio un atto d’amore non vanno perdute; e che un atto
d’amore dedicato a Lui ci conduce misteriosamente a
compiere atti d’amore per l’uomo; così come il nardo
della Maddalena, dedicato al vero Dio, diventa atto
pietoso anche per il vero uomo; per la sepoltura
del suo corpo.
La mensa di Betania è la lezione complementare alla
lezione del Cenacolo; perché la vera carità, la carità piena,                                                             la carità santa di cui ci parla San Paolo, si esercita
soltanto quando si esercita anche la carità verso Dio.
Se non spendiamo il profumo della nostra anima per Cristo,                                
se non ci inginocchiamo ai suoi piedi, se non guardiamo a Lui,                             
la nostra carità rischia di essere fragile e non matura, di essere
superficiale, (tanto per mettere la coscienza tranquilla) non
integra, affannosa e non gioiosa, antiquata e non profetica.
Il Signore è morto in Croce non perché il cristiano semini
nella sua vita minuscoli miracoli di carità quotidiana, ma
perché tutta la sua vita sia un intero miracolo di carità.
E questo autentico miracolo si compie soltanto con Lui.
La lezione che Gesù dette a Giuda in Betania e la lezione
che dette agli Apostoli nel Cenacolo sono un’unica lezione,                                                     
sono un unico modello per il cristiano; come i due
comandamenti nuovi del Signore sono un unico
comandamento: “Ama Dio con tutto te stesso, con tutte
le tue forze, e ama il prossimo tuo come te stesso”.
Un cristianesimo che si riduce alla pratica di una certa
solidarietà con il prossimo, non ha più niente a che
fare con il cristianesimo evangelico; la carità cristiana
è una forma di amore che rivolgiamo a Dio.
L’amore per Dio sorpassa i limiti di una carità puramente
umana e carnale, perché ci fa amare il prossimo nella sua
dimensione e vocazione eterna.
Si tratta dunque di conservare e di aumentare in noi quel
senso di Dio che deve essere il fondamento di ogni
nostro rapporto con gli altri.
Nella contemplazione di Dio, si svegliano nell’uomo i
sentimenti profondi della donazione e della lode, cioè i
sentimenti che fanno parte della dimensione integrale
dell’uomo; per cui un uomo che non ha questo senso
di Dio, è un uomo a cui manca qualcosa, manca il vaso
dell’amore, manca la totalità dell’amore autentico.
In certe epoche del cristianesimo si è data poca importanza                          
all’amore del prossimo.
Ma l’errore di oggi, reale e grande, è inverso.
Oggi si è tentati di credere che il cristianesimo si esprima                
essenzialmente con l’amore del prossimo, e facciamo
dell’amore di Dio qualcosa di secondario.
Questo è radicalmente contrario all’esempio di Cristo;                                          
tutta la vita di Cristo fu un duplice rapporto, uno con i
fratelli, l’altro più profondo e intimo con il Padre.
Così deve essere anche per noi, l’equilibrio della nostra
vita cristiana dipende dalla misura in cui siamo capaci
di unire queste due dimensioni, l’amore a Dio e l’amore
al prossimo.
Allora alla domanda che Gesù rivolge a tutti noi                                                              
nel suo Santuario è: “Capite cosa vi ho fatto?”
E noi rispondiamo umilmente: “Signore, non sappiamo

se abbiamo davvero capito, ma Tu, aiutaci a capire”.     

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