Nel
Cenacolo con Gesù.
Gesù mandò alcuni discepoli in città e disse
loro: “Appena entrate in città, vi verrà incontro
un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo………
Egli vi mostrerà una sala al piano superiore,
grande e addobbata; là preparerete”.
Essi andarono e trovarono tutto come aveva
loro detto e prepararono la Pasqua.
Parola del Signore.
In
quella sala, Gesù desiderò celebrare la sua ultima
Pasqua
ebraica e la sua prima Pasqua cristiana.
Dunque
il Cenacolo situato sulla collina di Sion,
non è
una sala qualsiasi ma una chiesa, la chiesa fondata
da
Gesù, la chiesa di Gesù e nostra prima chiesa cristiana.
Dopo
quel primo giovedì Santo in quella sala—che fu
Risparmiata
anche dalla distruzione di Gerusalemme—il
culto
cristiano si è svolto ininterrottamente per anni
e
anni; per anni e anni i pellegrini sono entrati in quella
sala
per venerarla come Madre di tutte le chiese, ma
anche come
culla della chiesa nascente, conchiglia
dello
Spirito Santo, primo Tabernacolo e Santuario
della
devozione cristiana.
Allora
ci domandiamo; quali erano i sentimenti di Gesù,
quando varcò la soglia di quel luogo?
Io i sentimenti di Gesù ho cercato di intuirli
attraverso il Vangelo.
Il
Vangelo ci narra che quando era a Gerusalemme,
il Signore insegnava ogni giorno nel tempio;
e di
notte usciva per pregare e stava sul monte degli
Ulivi;
ma già fin dal mattino tutto il popolo lo cercava
per
ascoltarlo; dovunque si spostava le folle lo seguivano,
perché
questo grande Rabbì compiva grandi prodigi,
misteri
gratificanti ed esaltanti.
Quando
però Gesù ha parlato di misteri dolorosi,
di
misteri scandalosi, quando ha parlato di croce, di morte,
di
umiliazione, allora le folle gli hanno voltato le spalle: “Quelle parole dice
il Vangelo, chi poteva sostenerle?”.
Questo, è il prologo!
Allora
con quale animo quella sera Gesù sarà entrato in
quella
sala sapendo che; “da Dio era venuto e a Dio
ritornava?”
Io
credo che Gesù, quel giovedì Santo, sia entrato nel
Cenacolo
con una piccola speranza; la speranza che
almeno
quel residuo, di dodici uomini accogliesse il mistero
di
quell’ultima Cena; che non si scandalizzassero; che
non lo
abbandonassero; che resistessero alla prova: Gesù
doveva
infatti provarli, doveva sapere se erano disposti
a
credere in un maestro, Figlio di Dio, che
lava i piedi ai discepoli e riassume in quel gesto
tutta
la follia delle Beatitudini; doveva sapere se erano
disposti
a credere nel Dio dell’Eucaristia e, cioè in un
Dio
che vuole soffrire e morire per riscattarci;
che
vuole alimentarci non solo nello spirito ma anche
nel
corpo, facendosi pane per tutti, per ogni tempo;
Gesù
doveva sapere se erano disposti a credere in un
Dio che
affida la sua nuova ed eterna alleanza al
sacerdozio,
di uomini impreparati e peccatori.
Giuda
non superò quella prova e fuggì…
Gli
altri undici restarono, nonostante lo
sbigottimento;
restarono per; “aver parte” con Cristo.
“Anche se tutti si scandalizzassero di Te, io non
mi scandalizzerò mai”,
rispose Pietro a Gesù quella sera.
Pietro
aveva queste repentine folgorazioni e capiva che il
requisito
fondamentale per aver parte con Cristo era quello
di non
scandalizzarsi di lui; e quando Gesù gli propose
lo
scandalo della lavanda dei piedi come condizione
per
essere con lui, esclamò: “non solo i piedi ma
anche le mani e il capo!”
Pietro
intuiva che il discepolo di Cristo deve anzitutto
piegarsi
al maestro, deve esercitare la fede, deve insomma
avere
lo spirito pronto anche se la carne è debole.
La
carne di Pietro era debole ma il suo spirito poteva
pronunciare
gli attestati di fede più sconvolgenti:
“Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”.
E ora: “Io non mi scandalizzerò mai!”
Questa
frase di Pietro può essere presa per chiave
d’ingresso
al Cenacolo; perché nel Cenacolo Cristo ci
attende,
non per chiederci se la nostra carne è debole
ma, per
chiederci se il nostro spirito è pronto.
Da
quel giovedì Santo il Signore, continua a dare
appuntamento
nel Cenacolo a tutti i suoi, a tutti noi,
per
verificare la nostra fede; ognuno di noi viene provato.
Perciò
io dico; se non sappiamo accettare un Dio che
sconvolge;
se non sappiamo benedire le sue vie anche
quando
non sono le nostre vie; se non sappiamo
capire
che le sue ragioni non sono le nostre ragioni;
se non
sappiamo confidare in questo Dio che tollera
tutto
ciò che a noi sembra intollerabile; cioè l’intollerabile
dolore
nel mondo, l’intollerabile ingiustizia, l’intollerabile
corruzione,
l’intollerabile sfortuna dei buoni e la fortuna
dei
cattivi, l’intollerabile sofferenza e la morte dei più piccoli;
se non
sappiamo credere che il mistero di Dio è sempre
un
mistero d’Amore finalizzato all’Amore senza fine,
allora
vi dico non entriamo nel Cenacolo; fuggiamo come
fuggì
Giuda, perché non potremo, “aver parte”, con il Dio
del Cenacolo; nel Cenacolo si entra con la fede a prova
di
mistero
o non si entra; in quella chiesa ci aspettano i
misteri
vertiginosi della nostra fede, misteri inviolabili.
Se la
nostra fede resiste anche quando la nostra mentalità
è
calpestata; se la nostra fede resiste anche quando la
nostra
carne è ferita; se la nostra fede resiste anche
quando
Dio ci chiede troppo, allora e soltanto allora
possiamo
dire che la nostra fede è Fede, e possiamo
sperare
di, “aver parte”, con il Signore.
Gesù
sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e,
che
era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola,
depose
le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno
alla
vita; poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare
i
piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui
si era
cinto; venne dunque da Simon Pietro e questi gli
disse:
“Signore, tu lavi i piedi a me?”
Rispose Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci,
ma lo capirai dopo”.
Gli disse Simon Pietro: “Non mi laverai mai i piedi!” Gli rispose Gesù: “Se non ti
laverò, non avrai parte con me”.
Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi, ma
anche le mani e il capo!” (Giovanni
13. 3-9)
Questo
brano è paragonabile ad un cielo stellato, più noi
fissiamo
le stelle più ne vediamo, è una visione ottica e
questo
dovrebbe accadere nel nostro animo, più noi
fissiamo
il nostro pensiero a quello che è accaduto nel
Cenacolo
il giovedì Santo e più scopriamo qualche nuova
luce, qualche
bagliore nuovo, è come se nel Cenacolo
divampasse
un incendio di luci.
Quei
grandi eventi si aprono con il gesto solenne di Gesù,
che
all’inizio della cena depone il mantello, versa dell’acqua
in un catino
e comincia a lavare i piedi ai discepoli.
Non so
se sapete che a quell’epoca la legge diceva che:
“Non ti lascerai mai lavare i piedi, non permetterai mai
a qualcuno di lavarti i piedi”.
Al
tempo di Gesù, neppure gli schiavi erano obbligati a
compiere
questo servizio umiliante; perciò ogni israelita
osservante
e tanto più un Rabbì avrebbe rispettato
questa
tradizione.
Invece
il Rabbì di Nazaret, il Maestro dei dodici, la infrange
fino al
punto di compiere lui stesso questo servizio.
“Quante luci risplendono in quel gesto così significativo!”
Il primo
significato che si potrebbe cogliere, credo sia
questo;
nessuno, né discepolo, né maestro, né schiavo,
nessuno
deve sentirsi umiliato nel compiere un atto di carità.
Se un
nostro fratello ha i piedi stanchi, polverosi, bisognosi
del
nostro sollievo, con letizia dobbiamo chinarci e servirlo; nessuna
legge o consuetudine umana può esentarci dalla carità.
Agli
occhi di Dio non sarà mai umiliante un gesto suggerito
dalla
legge del cuore, la legge divina è sempre dalla parte
del
cuore umano; lo sapeva San Francesco che baciava i
lebbrosi
emarginati dalla società, lo sapeva Madre Teresa
che
raccoglieva gli impuri, i dimenticati, i moribondi più
ripugnanti
e lo sanno i; “giusti” di ogni tempo che hanno
stimolato
i popoli a mettere più cuore nelle loro leggi,
che hanno combattuto contro le leggi ingiuste,
le leggi
schiaviste,
razziste, abortiste, le leggi dell’egoismo;
lo
sanno i Santi che hanno inventato le scuole per i poveri,
gli
ospedali per gli ammalati, gli ospizi per i senza tetto,
le
case per gli orfani, anche quando questa carità non
era
nelle leggi degli uomini.
Il
gesto di Gesù ci insegna che la carità è una legge più
grande
di ogni legge umana e che il cristiano deve obbedire
alla legge
della coscienza prima di ogni altra legge.
Subito
dopo questo significato, direi che ne affiora un
altro non
meno importante.
Con la
lavanda dei piedi Gesù ci insegna che la carità
va
fatta in proprio, che non possiamo dispensarcene;
nella
carità, il servo sia come il padrone, il Rabbì come
il
discepolo, il ricco come il povero, il giovane
come
il vecchio.
La
carità è la madre degli uomini e non c’è prestigio
personale
che esoneri un figlio dall’obbedire a questa madre.
E andiamo allora ancora più in profondità; Gesù si
china
sui piedi dei discepoli; i piedi non sono il volto,
non sono una parte attraente dell’uomo;
i piedi di
Giovanni
non avevano la gentilezza del suo volto;
i
piedi di Filippo non attraevano come i suoi bei
lineamenti
greci; i piedi di Pietro non conquistavano
come i
suoi slanci generosi.
I
piedi sono una miseria al confronto; eppure Gesù si
inginocchia
davanti a tanta miseria per insegnarci a servire
i
fratelli senza guardare al loro volto, senza guardare a
simpatie,
a preferenze, ad attrattive, senza cercare
alcuna
gratificazione.
Ma c’è
un’altra lezione da imparare che è quella di
inginocchiarsi;
saper imparare a inginocchiarsi nel
servizio
ai fratelli ma, a sua volta, ogni fratello deve
sapere
accettare la carità altrui con gratitudine e
semplicità,
come Gesù insegnò a Pietro che non
voleva
farsi lavare i piedi.
Può
darsi che un giorno tocchi a noi ad aver bisogno
che ci
lavino i piedi, il capo e le mani, o che ci imbocchino,
o che
ci vestano.
Gesù
ci insegna che per, “aver parte”, con Lui bisogna
saper fare la
carità ma anche saper
riceverla;
la carità va fatta con dolcezza e umiltà ma va
anche ricevuta
con dolcezza e umiltà.
Quanta luce emana quel gesto di Gesù!
Se
l’ultima Cena è la prima Messa nel mondo, allora la
lavanda
dei piedi è la prima omelia al mondo.
Ascoltiamola
con commozione e raccoglimento; e
facciamo
tesoro della sua conclusione, cioè delle parole
che
disse Gesù: “Anche voi, fate come io ho fatto a voi!”
È un
invito che non è limitato alla lavanda dei piedi,
ma
vuole essere un invito molto più ampio, vuol dire;
in ogni
cosa comportiamoci come si comporterebbe Cristo;
impariamo
ad essere liberi da tutto e schiavi solo di Cristo.
In
ogni cosa, chiediamoci cosa farebbe Cristo e facciamolo.
Imitiamo Cristo! È questa la regola d’oro della carità.
Quando
ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette
di
nuovo e disse loro: “Sapete ciò che vi ho fatto?”
Ogni
volta che abbiamo meditato la lavanda dei piedi,
l’abbiamo
sempre meditata come una lezione sulla carità,
giustamente,
eppure sembra che non ne abbiamo ancora
appreso
tutti i significati; sembra che il Signore continui
a
rivolgere anche a noi la domanda che rivolse agli apostoli: “Capite che cosa vi ho fatto?”.
Prima
di rispondergli, proviamo a riflettere e a chiederci;
si può
trarre un insegnamento più profondo in quel gesto che
appare
soltanto un emblema della carità verso il prossimo?
Cos’altro
dobbiamo capire della carità?
Per
tentare di capire, cominciamo col tornare indietro a una
lavanda
di piedi e a una cena precedente, dove sembra che
Gesù
sminuisca il valore delle opere buone verso il prossimo.
È la cena di Betania!
Gesù
vi prende parte insieme a Giuda e ad altri discepoli.
Durante
il convito interviene Maria, che prese una libbra di
essenza
di nardo da un vaso prezioso, unge il capo
e i
piedi di Gesù.
Tutta
la casa si riempie della fragranza di quel profumo.
Giuda
però osa esprimere il suo disappunto; e lo fa con un
argomento
che avrebbe dovuto chiudere la bocca al suo
Rabbì:
“Non era meglio che si vendesse quell’unguento per
darne
il ricavato ai poveri?”
Ma
ancora una volta, Gesù rovescia la situazione e fa a
pezzi
le certezze di chi lo circonda: “Lasciatela stare, dice, essa
ha compiuto un’opera buona verso di me; i poveri li
avete
sempre con voi, ma non sempre avete me; dovunque
sarà
annunziato il Vangelo in tutto il mondo, si narrerà
ciò
che essa ha fatto”.
Poi,
Gesù sottolinea un altro punto importante: “Ciò che poteva fare, ella lo ha fatto, ungendo in
anticipo il mio corpo per la sepoltura”.
È
questo il punto che volevo fare affiorare.
A
questa mensa Gesù insegna che le occasioni per offrire
a Dio
un atto d’amore non vanno perdute; e che un atto
d’amore
dedicato a Lui ci conduce misteriosamente a
compiere
atti d’amore per l’uomo; così come il nardo
della
Maddalena, dedicato al vero Dio, diventa atto
pietoso
anche per il vero uomo; per la sepoltura
del
suo corpo.
La
mensa di Betania è la lezione complementare alla
lezione
del Cenacolo; perché la vera carità, la carità piena, la
carità santa di cui ci parla San Paolo, si esercita
soltanto
quando si esercita anche la carità verso Dio.
Se non
spendiamo il profumo della nostra anima per Cristo,
se non
ci inginocchiamo ai suoi piedi, se non guardiamo a Lui,
la
nostra carità rischia di essere fragile e non matura, di essere
superficiale,
(tanto per mettere la coscienza tranquilla) non
integra,
affannosa e non gioiosa, antiquata e non profetica.
Il
Signore è morto in Croce non perché il cristiano semini
nella
sua vita minuscoli miracoli di carità quotidiana, ma
perché
tutta la sua vita sia un intero miracolo di carità.
E
questo autentico miracolo si compie soltanto con Lui.
La
lezione che Gesù dette a Giuda in Betania e la lezione
che
dette agli Apostoli nel Cenacolo sono un’unica lezione,
sono
un unico modello per il cristiano; come i due
comandamenti
nuovi del Signore sono un unico
comandamento:
“Ama Dio con tutto te stesso, con tutte
le tue forze, e ama il prossimo tuo come te stesso”.
Un
cristianesimo che si riduce alla pratica di una certa
solidarietà
con il prossimo, non ha più niente a che
fare
con il cristianesimo evangelico; la carità cristiana
è una
forma di amore che rivolgiamo a Dio.
L’amore
per Dio sorpassa i limiti di una carità puramente
umana
e carnale, perché ci fa amare il prossimo nella sua
dimensione
e vocazione eterna.
Si
tratta dunque di conservare e di aumentare in noi quel
senso
di Dio che deve essere il fondamento di ogni
nostro
rapporto con gli altri.
Nella
contemplazione di Dio, si svegliano nell’uomo i
sentimenti
profondi della donazione e della lode, cioè i
sentimenti
che fanno parte della dimensione integrale
dell’uomo;
per cui un uomo che non ha questo senso
di
Dio, è un uomo a cui manca qualcosa, manca il vaso
dell’amore,
manca la totalità dell’amore autentico.
In
certe epoche del cristianesimo si è data poca importanza
all’amore
del prossimo.
Ma
l’errore di oggi, reale e grande, è inverso.
Oggi
si è tentati di credere che il cristianesimo si esprima
essenzialmente
con l’amore del prossimo, e facciamo
dell’amore
di Dio qualcosa di secondario.
Questo
è radicalmente contrario all’esempio di Cristo;
tutta
la vita di Cristo fu un duplice rapporto, uno con i
fratelli,
l’altro più profondo e intimo con il Padre.
Così
deve essere anche per noi, l’equilibrio della nostra
vita
cristiana dipende dalla misura in cui siamo capaci
di
unire queste due dimensioni, l’amore a Dio e l’amore
al
prossimo.
Allora
alla domanda che Gesù rivolge a tutti noi
nel
suo Santuario è: “Capite cosa vi ho fatto?”
E noi
rispondiamo umilmente: “Signore, non sappiamo
se abbiamo davvero capito, ma Tu, aiutaci a capire”.
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