giovedì 24 marzo 2016

La notte il Getzemani.

Chiudo gli occhi, prego!
Vedo Gesù, in mezzo agli ulivi, lo sento pregare.
Sto a distanza, come hanno fatto gli apostoli.
È la notte del giovedì santo.
Immagino lo stato d’animo del Rabbì, non è difficile; 
basta aprire il cuore.
Sono turbato, emozionato e commosso.
Allora iniziamo meditando il racconto di Marco.
La cena si è conclusa.
Gesù, con i suoi, discende la scalinata verso il Cedron,
attraversa il fiume in secca, costeggiando gruppi di pellegrini
che bivaccano in attesa della pasqua, e si dirige verso un
podere di proprietà di un conoscente, o parente.
È abituale, questa passeggiata; Gesù fa questo tragitto
quando va dai suoi amici a Betania e, fanno intendere gli
evangelisti, quando, spesso, si ritira in questo luogo solitario,
prospiacente il tempio, per pregare.
Ma il suo stato d’animo, oggi, è completamente diverso.
Non è la prima volta che Gesù si ritira a pregare,  
la sua vita di preghiera è ben testimoniata dai vangeli,
in particolare da quello di Luca.
Gesù prende con se Pietro, Giacomo e Giovanni, i discepoli
della prima ora, quelli che lo hanno conosciuto all’inizio,
quando Gesù era ospitato a Cafarnao, sul lago, nella casa di Cefa.
Nei momenti più intensi e particolari, o in quelli che
richiedono un numero più ristretto di testimoni rispetto
al gruppo dei Dodici, Gesù vuole proprio loro tre accanto.
Nel Vangelo di Marco, la presenza dei tre è legata a qualche
evento straordinario e basilare nella comprensione di chi
sia veramente Gesù.
Quando risuscita la figlia di Giairo, manifesta la sua potenza
sulla morte, testimoniando che Egli è la vita.
Nella trasfigurazione, Gesù anticipa la Gloria della
risurrezione e svela la sua identità profonda.
Infine, nella profezia della caduta di Gerusalemme, Gesù
annuncia il suo ritorno nella Gloria, nella pienezza dei tempi.
Anche noi siamo invitati a far parte del gruppo ristretto
dei tre, a seguire Gesù nei momenti più intensi.
Qui al Getsemani, ancora, Gesù chiede ai tre di seguirlo,
e Marco svela l’inatteso volto di un Dio che si spaventa,
che è pieno di angoscia, che condivide, senza falsità,
i tratti più deboli della natura umana.
Chi è Gesù.
Si chiede Marco nel suo Vangelo.
È il Signore della vita, colui che manifesta la sua vera
natura, colui che tornerà nella Gloria.
Ma anche colui che vive la sua umanità acquisita totalmente,
senza parentesi, senza vantaggi.
Il discepolo è chiamato a seguire Gesù sulla via della Gloria
che, però, passa attraverso la notte del Getsemani.
Il desiderio, il bisogno del Signore, che chiede amicizia e
vicinanza, ci svela il volto autentico di Dio, che non è
immutabile e impassibile ma, in Gesù, sperimenta tutta
la fragilità dell’umanità.
I discepoli, nel corso della storia, hanno capito di Gesù
questa verità straordinaria; in Lui coabitano, senza
confondersi, la pienezza dell’umanità e la pienezza
della divinità.
Gesù non è un grande uomo pieno di intuizioni spirituali.
Gesù non è un involucro che contiene Dio.
Gesù è totalmente uomo, eccetto il peccato che, in effetti,
rappresenta la non—umanità, e totalmente Dio.
Queste due dimensioni in Lui coabitano, interagendo
e ponendosi a servizio del Regno e dell’annuncio del
vero volto di Dio.
Riguardo alle cose di Dio, Gesù ha la piena conoscenza,
perché Lui e il Padre sono una cosa sola.
Riguardo alle cose degli uomini, Gesù, come noi,
ha una conoscenza parziale e limitata.
Gesù non finge di avere paura, non conosce il suo futuro,
se non affidandosi alle mani del Padre.
Probabilmente Gesù non si aspetta una fine del genere.
L’angoscia che prende Gesù non è finta,
non è immotivata, non è inspiegabile.
È l’angoscia dell’uomo di fronte alla propria morte.
Peggio.
Davanti alla propria morte ingiusta e violenta.
Peggio.
Davanti al fallimento della propria vita,
che forse è quello che ha fatto più male a Gesù.
Marco lo sa.
Dice che Gesù è colto da terrore e spavento,
e la sua anima è triste fino alla morte.
Gesù inizia a pregare e prova sbalordimento,
è atterrito, impietrito, sconcertato.
I verbi usati da Marco, fanno notare i biblisti,
descrivono il massimo dell’intensità possibile,
un’angoscia estrema, uno stupore assoluto.
Verbi che, in Marco, troviamo in altre due occasioni;
è di sbalordimento il sentimento delle donne davanti al
sepolcro vuoto, è sbalordimento ciò che provano le folle
davanti alla guarigione de un indemoniato.
Gesù è atterrito, scosso, sconvolto.
La preghiera gli fa prendere coscienza dell’abisso che ha di fronte.
Non sempre però la preghiera porta con sé la pace.
A volte scombussola la nostra vita.
Non per questo Gesù smette di pregare.
Cosa teme il Signore? Il dolore fisico?
Forte, terribile, atroce, ma pur sempre limitato nel tempo?
Cosa teme, di cosa ha paura?
Del senso di fallimento che lo assale, per aver
sbagliato strategia nell’annuncio del Regno?  NO!
Gesù ha paura dell’inutilità del suo sacrificio.
Perché mai la sua morte dovrebbe cambiare le cose?
Chi se ne accorgerà?
Siamo sinceri; gli apostoli si stanno dimostrando
ben al di sotto delle legittime aspettative, la folla gli
ha girato le spalle, i capi dei sacerdoti e i sadducei lo
considerano un pericolo, i farisei un arrogante.
La più grande paura di Gesù, l’ultima tentazione di Cristo,
è la prospettiva dell’inutilità del suo sacrificio.
Migliaia di uomini sono morti crocifissi a Gerusalemme,
sotto l’impero romano.
Di quanti di loro conosciamo il nome?
Di pochi, quasi di nessuno.
Il grande rischio che Dio sta correndo è la dimenticanza,
finire, forse, nel ricordo vago di un manipolo di esagitati,
diventare una delle tante, troppe vittime del gioco politico
e del potere lungo la storia, un numero da statistica,
un caso esemplare.
Per far capire al popolo chi comanda.
Il quel momento, in quel preciso momento,
Gesù sa che la sua opera sta per essere annientata.
E che può, per sempre, essere dimenticata.
Molti di noi, credo, in un sussulto di orgoglio e di eroismo,
sarebbero disposti a donare la propria vita.
A patto di finire sui giornali e di vedersi dedicare,
eventualmente, un bel monumento in una piazza cittadina.
Gesù affronta la sua fine, evitabile, (basterebbe fuggire),
consapevole di voler andare fino in fondo.
Perché vuole andare fino in fondo?
Perché la croce?  Che senso ha?
Altro è dire, altro è morire!
Altro è predicare, altro è morire!
Altro è essere buoni quando tutti applaudono,
altro perdonare appeso alla croce!
La croce è la suprema manifestazione dell’amore di
Dio agli uomini.
Fino a questo punto siamo amati.
La croce mostra la serietà assoluta dell’amore di Dio per noi.
Capirà l’umanità?
Capirà che Dio si consegna alla volontà degli uomini, visto
che gli uomini non vogliono consegnarsi alla volontà di Dio?
Credo proprio di no!
L’angoscia di Gesù si fonda sulla consapevolezza
che il suo sacrificio potrebbe rivelarsi inutile.
È un rischio, il suo, il più terribile.
La sua anima è triste fino alla morte.
La sua anima è triste da morire.
Da morirne.
A chi, fra noi, non è mai successo?
Di vivere un momento di tenebra, di scoraggiamento,
di depressione che ci fa morire pur essendo ancora vivi?
Di sperimentare un fallimento affettivo, una malattia, una
delusione lavorativa, una crisi economica, e di non farcela?
Questa immagine di Gesù che confida ai suoi una tristezza
mortale mi impressiona, mi scuote nel profondo.
Anche Dio ha sperimentato l’angoscia.
Ma questa angoscia non l’ha fermato, non l’ha schiantato,
lo ha portato a superare il suo desiderio di fuga e ad
andare fino in fondo.
Gesù soffre per obbedienza, non gli passa neanche
per la mente di non obbedire.
Fratelli e sorelle che state a leggere, se siete tristi
fino a sentirvi morire dentro, Dio sa di cosa parlate.
Siamo soli, davanti al dolore estremo.
Dio non è un analgesico, non è un anestetico.
Ma è presente e vicino, solidale, si fa prossimo, resta
con noi e veglia.
Siamo noi invece che ci addormentiamo.
Quanto incoraggia avere accanto, nei momenti del dolore,
un amico!
Il dolore resta, ma la solitudine si attenua!
A Gesù è negata anche quest’ultima, debolissima consolazione.
Quanto menefreghismo c’è in noi.
Agli apostoli, pur invitati a vegliare, sono schiantati; le
emozioni della giornata, l’ora tarda; la cena abbondante
impediscono loro di restare svegli, mettiamo pure, anche,
il non aver capito quello che stava succedendo.
Non c’è nulla di più pericoloso del sonno dell’anima.
Ci impedisce di vedere cosa accade dentro di noi e intorno a noi.
E il nostro mondo è un mondo che ci anestetizza,
riempiendoci di cose da fare, di persone da incontrare,
di obbiettivi da raggiungere.
Perciò, ci manca uno spazio interiore per poter restare svegli.
E Luca aggiunge: “Poi, alzatosi dalla preghiera, andò dai
discepoli e li trovò addormentati, a motivo della tristezza,
il nostro spirito può essere assopito a causa della tristezza,
dello scoraggiamento, dello sconforto.
Una depressione, un lutto non superato, una visione troppo
pessimistica delle cose ci portano ad un atteggiamento di
sonno spirituale che ci impedisce di vedere la presenza di Dio.
Per quanto possibile, occorre coltivare la gioia nei nostri
cuori, fare in modo che la tristezza non ci spenga.
Gesù chiede agli apostoli vicinanza, conforto, amicizia.
È bello pensare alla preghiera come una compagnia di
Dio, come un incoraggiamento all’uomo che soffre.
È bello pensare che la preghiera non è solo chiedere,
ma anche esserci e donarsi.
L’invito che Gesù ancora rivolge a tutti noi è quello di
vegliare, di non lasciarci assopire dal sonno della vita.
Gesù torna, dopo la terza volta.
I suoi non hanno retto, pazienza, sarà forse per un’altra
volta, forse.
Dio non ama la sofferenza e non la cerca.
La sofferenza, quasi sempre, mette a dura prova la fede e
resta una delle principali obiezioni alla volontà di Dio.
Come può un Dio buono permettere il dolore?
E, in particolare, il dolore dell’innocente?
Perché Dio non interviene a favore dell’oppresso, del perseguitato?
Gli adulti soffrono, spesso, in conseguenza delle proprie scelte.
Ma i bambini, che sono innocenti?
Siamo onesti.
Quando accusiamo Dio della sofferenza che viviamo,
dovremmo prima farci un bell’esame di coscienza.
Dio non ferma le guerre perché siamo noi a doverle fermare.
Dio non sfama magicamente i bambini che muoiono di fame,
perché siamo noi a dover ridistribuire le risorse.
(In Europa si spende in prodotti dietetici
quanto l’Etiopia spenda per sfamarsi!).
E allora, di chi è la colpa?
Dio non sceglie quando una persona deve morire; non
si alza al mattino e, in vestaglia e assonnato, si mette dinanzi
a una gigantesca tastiera con sei milioni di bottoncini,
schiacciandoli a caso.
Dio ci tratta da adulti, pensa che l’uomo sia in grado di
vivere in pace, di essere solidale, di vivere sobriamente.
Guardiamo il problema dell’obesità.
Certo, un po’ di umiltà non guasterebbe, al genere umano.
La natura ha il suo ciclo, nasce, cresce e muore.
E anche noi siamo così, come ogni creatura, viviamo un ciclo
di vita più o meno lunga, nasciamo, cresciamo,
ci ammaliamo, moriamo.
Scusate; qualcuno può dirmi se prima di venire al mondo,
ha fatto un contratto con il Signore, di quanto sarà lunga
la sua vita?
Eppure, diversamente dalle altre creature,
l’uomo non accetta la propria morte, si ribella.
Che mistero il cuore dell’uomo!
Questa ribellione, in un certo senso, rivela la sua dignità, è
prova della sua natura divina, del suo voler, sempre, andare oltre.
Ma perché Dio non interviene direttamente?
Perché ci tratta da adulti, dicevamo, e perché la creazione
ha una sua armonia, una sua logica, che Dio stesso rispetta
e non stravolge.
E perché Dio rispetta la nostra libertà.
Quando una sera, una moglie disperata mi manifestava la sua
sofferenza per una improvvisa separazione e mi diceva:
“Prego tanto, ma perché Dio non interviene?”.
Ho sorriso: anche Dio fa quel che può, ho risposto.
Se tuo marito ostinatamente tiene chiuso il cuore,
come può Dio parlargli?
Alcuni, purtroppo, ancora oggi, pensano che la
sofferenza sia una punizione di Dio.
Gesù ha definitivamente sciolto il legame peccato/malattia,
colpa/punizione, smentendo la diceria che vedeva negli
ammalati dei maledetti, dei puniti, adoperandosi per guarirli
prima dai loro sensi di colpa, poi dalle loro infermità.
Gesù sa bene che la malattia e la morte non sono una
punizione divina; i giudei morti sotto il crollo della torre
di Siloe o per mano di Pilato, non erano particolarmente
malvagi, e la colpa della loro morte è da ricercare
nell’imperizia del progettista e nell’arroganza
del prefetto, non in Dio.
Ma, aggiunge Gesù, davanti a questi fatti il discepolo è chiamato
a tenersi pronto a qualunque evento, a cercare l’altrove.
Ma qui Gesù va oltre.
Dio non interviene a togliere il dolore.
Lo assume su di sé.
Il Getsemani ci rivela un Dio che non cancella la
sofferenza, la condivide.
Lo vogliamo davvero, un Dio così?
Sinceramente non lo so!
Tre volte Gesù chiede agli apostoli di pregare.
Pregare per condividere con Gesù la gioia e il dolore
del mondo può essere una gran bella scoperta.
Però Matteo aggiunge un particolare.
Gesù chiede ai suoi, e a noi, di vegliare e di pregare
per non entrare in tentazione.
La preghiera, in certe occasioni, ci è indispensabile
per non entrare nella tentazione.
È difficile pregare, oggi onestamente.
Molte persone che ho incontrato, mi hanno manifestato
la loro fatica a trovare tempi e parole per pregare.
La liturgia delle ore è impegnativa, il rosario non a tutti piace,
la messa quotidiana è impraticabile da chi lavora e ha famiglia.
Così molti non trovano il modo di praticare una preghiera
coinvolgente, soddisfacente, che li faccia crescere.
Ma la stragrande maggioranza del popolo cristiano,
non capisce la necessità di una pratica
di preghiera costante e quotidiana.
Nei momenti di festa va bene, magari nei momenti
drammatici della vita si ricorre a tutte le preghiere conosciute.
Ma, in fondo, perché pregare?
Gesù, nel Getsemani, ce ne offre la ragione principale;
per non entrare in tentazione.
Quale tentazione?
La peggiore del nostro tempo; quella della dimenticanza.
I ritmi lavorativi e di vita sono così frenetici da
impedirci di rientrare in noi stessi.
Il dramma della nostra cristianità è, semplicemente,
quella di avere perso Cristo.
Bombardati da mille informazioni, spesso inutili, siamo
ingombri di pensieri e di cose da fare e rischiamo di giungere,
esausti, alla fine delle nostre giornate, senza avere avuto
alcun confronto con la nostra interiorità.
Il sale della nostra vita, la fede, rischia di perdere il sapore
e, così, diventiamo insipidi.
La preghiera diventa, allora, l’opportunità quotidiana
minima di ricordarci chi siamo, e chi è Dio, e cos’è la vita,
e cosa siamo chiamati a vivere.
Come se, alzando un tombino sul marciapiede della nostra
città, ci accorgessimo che sotto scorre l’oceano.
Abbiamo urgente bisogno di preghiera, di silenzio,
di meditazione, di spessore e di verità.
Abbiamo bisogno della Parola, come il pane.
Anche solo per cinque minuti al giorno, lo spazio interiore
di preghiera e riflessione ci è necessario per non cadere
nel sonno dell’oblio, della stanchezza esistenziale,
dell’intasamento emozionale.
L’invito che Gesù rivolge alla Chiesa resta attuale e pieno
di forza; vegliamo per non entrare nella tentazione di
lasciarci vivere.
Eccolo qui, il tempo opportuno.
L’avversario non giunge mai quando siamo in piena forma,
al pieno delle nostre capacità spirituali e di discernimento.
Giunge nel momento più difficile,
quando siamo deboli, fragili, confusi.
Noi vorremmo una vita spirituale in discesa, una santità
senza scosse, un discepolato perfetto, pulito.
Che noia la tentazione!
Che fastidio i nostri limiti!
Come vorremmo presentarci a Gesù con il nostro ego
spirituale tirato a lucido!
Gesù non la pensa così: “Quando lo spirito immondo esce
da un uomo, se ne va per luoghi aridi cercando sollievo,
ma non ne trova.
Allora dice; ritornerò alla mia abitazione, da cui sono uscito.
E tornato la trova vuota, spazzata e adorna.
Allora va, si prende sette altri spiriti peggiori ed entra a
prendervi dimora; e la nuova condizione di quell’uomo
diventa peggiore della prima.
A volte è meglio imparare a convivere con i propri limiti
e le proprie povertà, che permettono di restare nell’umiltà.
Una cosa è certa; l’avversario ci prende nel momento
di maggiore fatica interiore.
L’avversario trova Gesù solo, affaticato, deluso,
scoraggiato, e lo assale.
Dopo decenni di idiozie dette sul demonio, di film deliranti,
è difficile parlare serenamente dell’avversario.
Eppure c’è, e agisce.
È l’ombra, la parte oscura dentro di noi, quella che
distrugge, scoraggia, avvilisce, deprime, porta a compiere
gesti di autolesionismo.
Si insinua nel pensiero, è ragionevole, è convincente.
Perché andare a farsi massacrare?
A cosa serve?
I suoi stanno dormendo, la missione è fallita,
deve riconoscerlo, Gesù!
Forse aveva ragione l’avversario, nel deserto; è stato troppo
ingenuo il Signore, pensando di convertire l’umanità
con le parole e il sorriso.
Ben altro ci vuole!
Prodigi, miracoli eclatanti, compromessi!
Ora Gesù raccoglie ciò che ha seminato; il nulla.
Perché andare a farsi uccidere? È inutile!
Nella prova, se perseveriamo nella preghiera, può succedere
che il Signore ci mandi degli angeli a consolarci.
Possono essere amici che telefonano per invitarci a cena,
un fratello nella fede che ci promette preghiera,
un piccolo segno durante la giornata.
L’importante è avere il cuore aperto, orante,
che sappia riconoscere i piccoli, discreti segni della
presenza consolante e incoraggiante di Dio).
La tentazione dell’agonia di Gesù è terribile, realistica, credibile.
Perché andare a farsi uccidere?
È tutto inutile!
No, dice l’angelo che viene, non è inutile.
Chissà, forse, per incoraggiarlo,
l’angelo gli ha fatto vedere me, te, tutti noi.
Noi che ci sentiamo salvati dal Signore, amati trasfigurati.
Forse, per consolare Gesù, l’angelo ha fatto vedere tutti noi,
che siamo la consolazione di Dio.
C’è un’annotazione particolare, in Luca, unica nei quattro vangeli.
Nel momento di lotta interiore più forte, più intenso,
Luca scrive che il suo sudore diventò come gocce di
sangue che cadevano a terra.
Quanto inchiostro ha fatto versare questo sangue versato!
Fantasia, esagerazione, palese dimostrazione che i vangeli
sono fantasiosi e inesatti, sostengono i criticoni professionisti.
E invece!
Il problema esiste; Luca usa il termine greco thrombos,
che significa, grumo.
Come può un grumo uscire dal corpo?
Questa contraddizione ha fatto diventare matti i traduttori
del passato.
Oggi, grazie alla medicina, abbiamo capito di cosa si è trattato;
di ematidrosi.
Si tratta di una vasodilatazione intensa dei capillari sottocutanei,
provocata da una forte emozione, da una angoscia estrema.
I capillari, eccessivamente dilatati, si rompono, entrano
in contatto con le ghiandole sudoripare della pelle,
ed esce una mistura di sangue e sudore.
Se non che, a contatto con l’aria, la porzione di sangue
coagula e viene trascinata a terra dal sudore.
Luca, perciò, sta descrivendo un fenomeno medico, non mistico.
Potremmo tradurre; e il suo sudore divenne come grumi
di sangue che rotolano fino a terra.
Questa annotazione ancora ci rivela la serietà della testimonianza.
E l’immenso dolore di Gesù.
E il fatto che probabilmente, come attesta la più
antica tradizione cristiana, Luca era un medico.
Un buon medico.
Gesù, quindi, torna dalla sua preghiera dolorosa con
la consapevolezza che è giunto il momento di consegnarsi.
Si è già affidato al Padre, ha piena fiducia in Lui.
Ora sa che non c’è altra strada.
Da qui in avanti coglieremo una sorta di serena rassegnazione
nel suo agire, nelle sue parole, nei suoi silenzi.
Gli uomini lo strazieranno. Lo massacreranno.
Ma il suo cuore, ormai, è donato totalmente al Padre.
Gli eventi precipitano; una piccola folla con torce e lance,
composta da soldati del tempio e, secondo Giovanni da
soldati romani, avanza nell’oscurità senza fare troppo
rumore, per non attirare la curiosità dei pellegrini
accampati nel vallone.
Giuda è con loro!
Gesù torna dalla preghiera, ormai tutto è compiuto.
Gli sgherri che accompagnano Giuda pensano di coglierlo
di sorpresa; stupiti trovano un Gesù pronto, che li aspetta.
Il racconto di Marco è concitato, frenetico, tutto si muove,
eccetto Gesù che assiste e, alla fine, getta un colpo di luce
sugli eventi, interpretandoli.
Il tumulto tanto temuto si risolve in un breve confronto
in cui qualcuno, Pietro, specificherà Giovanni, usa una
spada e mozza l’orecchio (Malco), ad un servo del
sommo sacerdote.
Gesù, sereno, prende in mano la situazione.
Lo abbiamo già visto; il Sinedrio ha deliberato di far fuori Gesù,
lo ha giudicato in contumacia, ora lo deve solo prelevare,
in tutta fretta, prima della pasqua, e farlo condannare dai romani.
Bisogna arrestarlo lontano dalla gente, che lo ascolta e
gli vuole bene, soprattutto dopo la risurrezione di Lazzaro.
Giuda, accecato dal proprio giudizio, pensa che la situazione
stia precipitando; forse è bene organizzare un incontro col
Sinedrio, costi quel che costi.
Sia Giuda sia i sacerdoti si aspettano una reazione
da questi galilei (gli zeloti, movimento estremista e violento,
non provengono forse dalla Galilea?), meglio premunirsi.
Il ruolo di Giuda è quello di segnalare la presenza
di Gesù in un luogo appartato, dove possa essere
prelevato senza clamore, in tutta fretta.
Perciò Giuda, che tradisce nervosismo, chiede ai soldati
di portarlo via con attenzione, senza attirare lo sguardo
dei numerosi pellegrini accampati nella valle del Cedron.
È una folla, una turba, quella che va ad arrestare Gesù.
Non hanno nomi, o identità, sono dei violenti
che arrivano con spade e bastoni.
Si è sempre soli quando si fa il bene.
Il male, invece, raduna folle oceaniche.
Siamo sempre soli, se scegliamo l’ardua via del Regno,
la presenza di Cristo Signore, la luce del Vangelo.
Soli e anche considerati un pò fessi, a dirla tutta.
Non vi è mai capitato di parlare di Dio, ed essere
guardati male? Io si!
La folla, invece, spinge al male, galvanizza, accende, eccita.
Spesso è un branco che violenta le donne, o uccide le
persone inermi.
Stare insieme dona coraggio, oscura la coscienza,
aiuta a commettere il crimine.
Così accade con Gesù.
Giuda, resta uno dei Dodici, uno dei chiamati.
Uno di coloro che ha avuto il privilegio di seguire il Rabbì,
anche ora che il suo cuore è confuso.
Il segno che Giuda da, serve a identificare il Rabbì.
Un bacio, che ironia!
Questo particolare mi ha colpito, durante la lettura per
la meditazione, mi ha messo in ansia leggendo il brano;
quello che io bacerò è Lui, prendetelo; la mia mente ha
iniziato a girare convulsamente.
Ma non ha senso!
Tutti sapevano benissimo chi fosse Gesù, perché indicarlo?
Ho letto e riletto il brano, ed è arrivata la spiegazione,
stiracchiata però, c’erano le torce, è vero, il buio però
avrebbe potuto non far riconoscere Gesù, perciò serviva
un segno, un bacio.
Bene, giusto, ovvio.
Ci ho creduto poco!
Ripensando alla lettura, però, nel bagliore delle torce
è venuta una considerazione; forse con quel segno, che
indica Gesù, gli evangelisti osano molto di più.
Stanno dicendo; anche se Giuda è un traditore, senza
saperlo fa ancora l’apostolo.
Indica il Cristo.
È stiracchiata come interpretazione, ma quel bacio è
pieno di significati.
Quel bacio è un segno per gli sgherri.
E per Gesù.
Giuda si avvicina e lo saluta, come usano i discepoli
rivolgendosi al Maestro.
E lo bacia.
Un bacio frettoloso, nervoso, falso.
Eppure Gesù lo accoglie, pur sapendo benissimo
che quel segno è un segno di morte.
E parla: “Amico, perché sei qui?”.
Amico; colui che io amo. Anche ora.
Amico; non cambia nulla nel cuore del Maestro,
ancora un ultimo, disperato tentativo di salvarlo.
Amico; non traditore, non spregevole, non bastardo.
Amico! Perchè sei qui?
Gesù lo invita a consapevolezza, a prendere coscienza di
ciò che sta facendo, a reagire, anche solo per un istante.
Ma è troppo tardi.
Dio non viene mai meno al suo amore; mai.
Anche se ci allontaniamo da Lui, Egli non si allontana
da noi, perché ci ama di tenerezza infinita.
Dio non si pente di averci chiamati a sé, di averci fatti
discepoli, anche quando lo tradiamo, o lo rinneghiamo.
Giuda nel cuore di Gesù, è ancora discepolo.
Ed è infinitamente amato, perché Dio, contrariamente
a noi, non ama per il merito, ma secondo la necessità,
e Giuda ha un bisogno enorme di amore.
Gesù parla; l’unico, oltre a Giuda.
Siete venuti nelle tenebre a prendermi,
invece di arrestarmi al tempio.
Ma si devono adempiere le scritture.
Questa è l’ora delle tenebre, la vostra, dice Luca.
Giuda ha sbagliato, certo.
Ma tutti fuggono.
I discepoli fuggono, tutti, abbandonandolo al suo destino.
Giuda ha sbagliato.
Ma nessuno, fra loro, brilla di audacia e di generosità.
Andiamo più in profondità.
Gesù si fa avanti; chi cercate?
Non c’è bisogno di nessun segno; Giuda però va fino in
fondo al suo misfatto, lo bacia perché sia riconosciuto.
Chi cercate?
La domanda coglie di sorpresa i suoi accusatori;
si aspettavano un uomo spaventato e fragile,
trovano un uomo sereno e deciso.
Chi cercate?
La stessa domanda che Gesù rivolge ai due discepoli di
Giovanni che lo seguono e che porrà alla Maddalena
nell’orto degli ulivi dopo la risurrezione.
il Signore li invita a seguirlo e a vedere.
I soldati cercano un brigante, troveranno l’assoluto di Dio.
Maria cerca un cadavere da piangere, troverà il risorto.
Chi cerchiamo, quando seguiamo Gesù?
Certezze? Consolazione? Rassicurazioni?
Gesù è sempre altro, sempre altrove, non si lascia toccare,
non si lascia ingabbiare nelle definizioni, neppure in
quelle devote e pie.
Chi cercate?
Il Vangelo ci dice che Gesù chiede autenticità e verità,
che seguirlo ci porta, inevitabilmente, a  riconoscere
le nostre ombre e a superarle.
Gesù chiede la consapevolezza, la riflessione su noi
stessi, la autoanalisi.
Il mio vero io riconosce il vero Dio.
Gesù scuote chi lo segue; non vuole dei discepoli a rimorchio,
non vuole dei discepoli frignoni (sempre a piangerci addosso).
E vuole che Giuda e i soldati si rendano conto di chi
stanno arrestando.
Un agitatore di folle?
Un povero squilibrato?
Un fanatico religioso?
Un pericolo per la stabilità dell’impero?
No, stanno per arrestare Dio!
Cercano Gesù il Nazareno.
È di fronte a loro, ma non lo riconoscono, nemmeno Giuda.
Cercano Gesù.  Per arrestarlo.
La risposta di Gesù fa tremare i polsi.
Io sono! Il nome stesso di Dio!
Quel nome, impronunciabile, YHWH, Io sono, Io sono colui
che sono, Io sono colui che è, Io ci sono, Io sono presente.
Il nome stesso di Dio, nome donato, perché in Israele il nome
descrive l’essenza di chi definisce, non declina le generalità.
Quel nome che non si poteva pronunciare senza commettere
peccato, che nessuno, mai, avrebbe osato attribuire a un uomo
o, peggio, a se stesso; Gesù se lo attribuisce.
E la reazione è immediata; tutti arretrano e cadono,
precipitano a terra.
È normale; davanti al Divino, si cade a terra.
Ora sanno con chi hanno a che fare,
ora sanno chi conduce il gioco.
Pensano di essere i padroni della situazione,
ma non lo sono.
Gesù insite, detta le condizioni,
quelli che sono con Lui bisogna lasciarli andare.
Tenero; pensa a loro, invece che a sé.
Gesù, già con i suoi discepoli, si sostituisce,
si mette avanti, va al posto loro.
Gesù si dona, sul serio.
Dio è un Padre che dona la propria vita per i figli.
Ora i soldati, e Giuda, (e noi con loro), sanno, sappiamo.
È l’immenso che stanno fermando, l’Assoluto che pensano
di poter arrestare, il Creatore del Cosmo, colui che stanno
per condurre al Sinedrio.
Ecco, tutto è pronto, Gesù si è consegnato, la notte è
ormai avanzata, i soldati lo portano in città, alla luce
delle torce, in un luogo dove si è radunata, in tutta
fretta, una parte del gruppo del Sinedrio.
Va in scena, ora, il più ridicolo dei procedimenti
penali della storia.

Il processo di Gesù.        

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