giovedì 13 aprile 2017

Meditazione sull'ultima Cena

La stanza al piano superiore
Leggendo i racconti della passione, si parla di un’altra casa, oltre a
Betania, in cui Gesù si è sentito accolto in quelle ultime ore.
Una casa particolare, rimasta segreta, ampia e spaziosa, addobbata
con tappeti, fa notare Marco, preparata apposta per Gesù.
Gesù che si appresta a morire.
La città è in fibrillazione per la pasqua ormai imminente,
la più solenne delle feste ebraiche.
Migliaia di pellegrini sono saliti a Gerusalemme.
Gli apostoli ignari, ancora gongolano per gli eventi
della risurrezione di Lazzaro.
L’ingresso trionfale a Gerusalemme li ha caricati a mille.
 L’idea che la situazione possa precipitare, ora, neppure li sfiora.
Un po’ come succede a noi, quando, tutto va bene siamo sereni, pieni di
vita e pensiamo solo a divertirci, per poi appena arriva qualche problema,
cadere nella disperazione.
Gesù dice che, dobbiamo essere sempre pronti.
Solo Gesù sa.  E Giuda.
Le cose non stanno affatto andando bene; i sadducei stanno cercando
un’occasione per ucciderlo.
I farisei sono urtati dalle sue continue provocazioni.
La folla che lo ha acclamato e seguito in Galilea, qui in Giudea non
si lascia coinvolgere più di tanto.
I suoi apostoli, teneri, non hanno capito nulla, poveretti.
Gesù sa che la sua missione è fallita.
L’uomo non accetta il nuovo volto di Dio.
Odio e incomprensione stanno crescendo.
I sadducei vogliono risolvere in fretta l’affare Gesù, soprattutto dopo
l’eclatante e inopportuna risurrezione di Lazzaro.
Presto prima di pasqua.
Gesù sa che quelle potrebbero essere le ultime ore.
Prende una decisione; lascia Betania e decide di cercare un luogo
a Gerusalemme dove celebrare una cena.
Una cena d’addio, pensa.
I suoi, invece, non sanno proprio di cosa si tratti.
La gente, dentro le mura, è tutta presa dai preparativi.
Si tratta in quell’ultimo giorno prima di pasqua, di togliere tutto il
lievito presente entro le mura, come chiesto a Mosè, (Esodo 13,7).
Tutto ciò che può fermentare, deve essere trovato ed eliminato.
Il lievito è il simbolo del male, il simbolo dell’orgoglio, dell’arroganza,
che va bruciato per poter celebrare il passaggio; il lievito è l’immagine
dell’inclinazione cattiva.
Per i sette giorni seguenti, non si potrà mangiare pane lievitato,
nelle case degli ebrei, come prescrive la Torah, (Deuteronomio 16,3-4).
Anche Gesù, considerato lievito malvagio, dev’essere tolto di mezzo
e allontanato dalla città per non contaminare la pasqua. (MC 14,12-16).
L’agnello pasquale va consumato dentro le mura della città, i pellegrini
sono autorizzati a mangiarlo fuori, visto il gran numero di persone
giunte a Gerusalemme.
Si tratta di trovare una sala adatta, una stanza pronta.
Gesù manda due discepoli e affida loro il compito di
contattare una persona, un tale, conosciuto dai discepoli.
Chi è questo tale?
Alcuni scrittori giungono a immaginare che la grande stanza addobbata
sia di proprietà di un discepolo di Gesù, appartenente alla classe
sacerdotale, che abita nella città alta.
Forse addirittura, si tratta di Giovanni l’evangelista, in passato
identificato con Giovanni l’apostolo.
Che Giovanni evangelista non sia Giovanni l’apostolo,
fratello di Giacomo, spiegherebbe molte cose.
Il fatto che il suo Vangelo sia quasi esclusivamente ambientato a
Gerusalemme, fa pensare che sia originario della città e non della Galilea
come l’apostolo, che non dica una parola degli eventi in cui sono coinvolti
Pietro, Giacomo e Giovanni come riferito dai Sinottici, la sua straordinaria
conoscenza della scrittura, la presenza, nel prologo, di alcuni temi in uso
alla riflessione rabbinica che ne fanno non un pescatore, ma, piuttosto,
un dottore della legge, la facilità con cui entra nella casa del sommo sacerdote
Anna e vi fa entrare Pietro, (GV 18,15-16) e, soprattutto, il fatto che il quarto
evangelista non si identifichi affatto con l’apostolo Giovanni, sono elementi
che rinforzano questa tesi; Giovanni evangelista perciò, non è Giovanni l’apostolo.
La sua presenza accanto a Gesù durante la cena, più vicino di Pietro,
si giustifica bene se egli è il proprietario della casa che li ospita.
È la casa di Giovanni l’evangelista, sacerdote del tempio?
È possibile!
Mi piace pensarlo e ci sono degli indizi che sostengono questa tesi.
Mi piace moltissimo la versione di Matteo, in cui i discepoli dicono alla
persona designata: il Maestri dice: “Il mio tempo è vicino; vorrei celebrare
la pasqua insieme ai miei discepoli presso di te” (MT 26,18).
Perché nessuno degli evangelisti ricorda il nome del proprietario della
splendida stanza alta, addobbata, che diventerà anche il rifugio per gli
apostoli dopo la crocifissione e, forse, la stanza della Pentecoste?
È un luogo importante, essenziale, conosciuto dalla primitiva comunità!
Forse perché è un particolare senza importanza annotano alcuni.
Azzardo un’ipotesi; se d’avvero è la stanza di un sacerdote, e questo
sacerdote è l’evangelista Giovanni, forse non era opportuno
svelarne l’identità.
O forse perché l’invito ad addobbare la stanza alta è rivolto
a ciascuno di noi, ad ogni discepolo.
Gesù desidera celebrare la pasqua presso ciascuno di noi,
nella nostra vita, nella nostra stanza interiore.
La fede non è un evento che ci sfiora, che ci sta accanto, che ci vede
partecipanti part-time, l’evento delle feste comandate e della domenica,
da tirare fuori quando serve.
È finito il tempo in cui Dio si nascondeva misteriosamente altrove.
Egli è presente nella quotidianità, incontrabile, riconoscibile, accessibile.
Meglio, manifesta il suo desiderio di stare con noi,
di stare con me, con te, con tutti voi.
Abbiamo allora, una stanza addobbata in cui accogliere il Signore,
nella nostra vita?
Un luogo, un tempo, un atteggiamento che gli permetta
di celebrare il dono della sua vita?
Può essere un tempo di preghiera quotidiana, un ritiro annuale in una
casa spirituale, un pellegrinaggio in un luogo santo, non una gita,
l’abitudine a meditare la Parola e chiederci cosa Lui vuole dirci.
Il grande dramma del nostro tempo è che lamentiamo l’assenza di Dio.
Ma non ci facciamo trovare.
Dio ci rende partecipi, si fa nostro ospite, si dona totalmente,
solo se lo vogliamo, se lo invitiamo.
Perciò, lasciamoci incontrare!
La stanza è pronta, grande, spaziosa.
Non è una cena pasquale, è la cena pasquale.
La cena dell’addio, del dono, delle consegne.
Ignari, gli apostoli non sanno quello che sta per succedere.
Gesù rispetta la sequenza prevista dal rito della cena pasquale,
anche se nessun evangelista parla di agnello o di erbe amare.
Come è abituale in una cena di festa.
Gesù benedice e ringrazia per il pane, all’inizio del pasto.
Poi alla fine, si benedice e si ringrazia bevendo il vino.
Gesù però cambia la gestualità e le parole della
preghiera di benedizione, a cui tutti rispondono amen.
Lo fa sapendo che sta per dare se stesso in cibo all’umanità.
IL DONO.
Tutto è pronto, ora.
Gli apostoli chiacchierano, gli eventi degli ultimi giorni li
hanno galvanizzati.
Solo Giuda è scostante, di malumore, sembra pensare ad altro.
Gesù li ascolta, il suo cuore è gonfio, pieno di gioia per essere lì;
ama teneramente i suoi discepoli.
Scrive Giovanni: “Prima della festa di pasqua, sapendo Gesù che era
venuta la sua ora per passare da questo mondo al Padre; avendo amato
i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”, (GV 13,1).
Gesù è disposto ad amare fino alla fine.
Nel suo intimo, però, l’inquietudine vigila.
Sa che è l’ultima cena.
Sa che tutto sta per finire.
Vuole ancora compiere un gesto, l’ultimo.
Mettiamoci nei panni di Gesù.
Non storcete il naso, spesso ci mettiamo nei panni di Dio, o no.
Gesù è vissuto per trent’anni nell’anonimato, preparandosi alla sua
missione, assumendo la consapevolezza del suo particolare rapporto con
Dio, scoprendo in sé la presenza di Dio in maniera unica.
Il Verbo che lo abita illumina anche la sua intelligenza; Egli sa di
avere un compito speciale, una missione particolare.
Ha posto la sua vita al servizio del Regno di Dio, è stato discepolo del
Battista, poi gli è passato davanti e, nel deserto, ha scelto come
proclamare il vero volto del Padre; senza durezze, senza trionfalismo,
senza compromessi, ma affidandosi unicamente alla Parola.
(Il suo parlare è intenso, zelante e colto,
totalmente diverso da tutti e conquista le folle).
È tutto all’opposto di noi, che la Parola sembra proprio ci interessi
poco, basta vedere quante persone vanno a Messa quando addirittura
è finita l’omelia.
Perché, la scusa è sempre pronta, il prete non sa parlare bene, avete
ragione mi associo, allora è meglio entrare nel momento cruciale
della Messa.
No; tranquilli, non condivido.
E se invece fossimo noi, che non ci impegniamo ad ascoltare,
magari pensando alle nostre varie cose?
Mi sa che è proprio così, è come quando troviamo il poco tempo per
pregare, ma la nostra mente è piena di mille cose e ci distoglie da
quello che stiamo facendo.
Tranquilli, vi capisco, capita anche a me certe volte.
Siamo in buona compagnia, allora.
Chiudiamo la parentesi, ritorniamo al nostro Gesù.
Ha iniziato la sua predicazione in Galilea, attorniato da alcuni amici
e discepoli con cui ha condiviso la tavola e i sogni.
Il suo modo di parlare del Regno, la sua tenerezza, la sua compassione,
hanno fatto breccia nel cuore delle persone; mai nessuno ha parlato
di Dio come parla il Rabbino di Nazareth.
Appunto, Gesù.
La sua fama si diffonde a macchia d’olio; ora parla davanti alle folle.
Parla di Dio, della legge, dei precetti.
Intenso come un esseno, zelante come un fariseo, colto come uno
scriba, eppure totalmente diverso da tutti.
Non è presuntuoso, non infastidito dai poveri e dai piccoli, non arrogante.
Qualcuno dice che compie miracoli, alcuni lo testimoniano,
ma non vuole pubblicità intorno a questi eventi.
Sale a Gerusalemme, dove si scontra con la durezza dei sadducei; anche
i farisei lo guardano con sospetto perché li mette in difficoltà rispetto
alle troppe, inutili piccolezze dei comandamenti orali.
Ci sono d’esempio le nostre comunità parrocchiali.
La tensione cresce, Gesù è guardato con sospetto.
Parla liberamente di Dio, lo considera suo Padre, corregge la legge,
svela un volto di Dio inatteso e magnifico.
Dio è un Padre che ama i suoi figli, che li tratta da adulti.
Dio è un pastore che cerca le pecorelle smarrite e le carica sulle spalle.
Dio è un vignaiolo che affida all’umanità la sua vigna preziosa.
Dio è un Padre misericordioso, che aspetta i suoi figli peccatori per
perdonarli; ci ricordiamo, va e non peccare più, la tua fede ti ha salvato.
Ma le parole non bastano.
I suoi collaboratori più stretti sembrano non avere
capito molto della situazione, che sta precipitando.
Con quale stato d’animo Gesù celebra quella cena, quel 6 Aprile dell’anno 30?
Forse con un senso di fallimento.
Come capita a tutti noi, prima o poi.
È venuto per annunciare il vero volto di Dio, perché Lui e il Padre sono
una cosa sola.
Ma l’uomo non ha capito.
La folla che lo acclama, chiede sempre dei miracoli,
come se fosse un fenomeno da baraccone.
Questo capita anche ai nostri tempi, tutti a correre nei vari Santuari
in cerca del miracolo, tanti vanno a Medjugorje per toccare i veggenti
nella speranza che succeda qualche cosa di speciale.
Ma che senta dire, vado in quel posto, per riempirmi di Dio,
della sua Parola, è una cosa rarissima.
I farisei, che condividevano molte delle sue idee, lo guardano con
sospetto, hanno paura perche è il solo che osa contraddirli.
I sadducei e la classe sacerdotale lo considerano un pericolo per la
stabilità del paese, o delle loro tasche; per forza, parla sempre di condividere.
I suoi amici, i più fedeli, non hanno colto la gravità della
situazione e si gongolano nel loro nuovo ruolo spirituale.
Tutti, eccetto Giuda, che pensa di accelerare i tempi, di farlo
incontrare col Sinedrio, e combina un pasticcio assurdo.
Povero Giuda, ha dovuto sobbarcarsi anche le nostre colpe, il tradimento.
Gesù ha fallito la sua missione; l’uomo non cambierà mai.
Che fare allora?
Gesù chiede consiglio a chi lo ascolta.
Cerca una luce, una strada da percorrere, ma a nessuno interessa quello
che deve fare.
L’importante che non rompa troppo.
Cosa deve fare ancora?
(MT 21,33-41).
Ecco la risposta di quelle persone che solo dopo qualche giorno
urleranno crocifiggilo.
Idiozia dell’animo umano.
I vignaioli omicidi chiedono a gran voce di giustiziare i vignaioli
omicidi; chiedono di essere giustiziati.
Ecco l’imbecillità dell’essere umano.
Sì, forse dovrebbe fare così; arrabbiarsi, invocare il fuoco del cielo
o una legione di angeli con le spade fiammeggianti.
Non alzerà la mano contro i coloni, ma si farà immolare su un
patibolo per loro e per tutti.
No, non lo farà.
Colui che non spezza una canna incrinata, tenterà un’ultima strada.
Donarsi, consegnarsi, osare.
A partire da ora.
FARSI DONO.
È una cena pasquale, quella che stanno vivendo.
Cena intensa, come quella rituale della fuga del popolo schiavo dall’Egitto.
Gesù prende il pane, all’inizio della cena, lo spezza e lo dona,
come previsto in occasione delle festività.
Alla fine prende il calice del vino e, diversamente dal rituale, lo porge
ai suoi discepoli, (Marco invece sintetizza questi due gesti ponendoli
insieme, durante la cena).
E parla. (MC 14,22-25).
Aggiunge alle consuete parole di benedizione, un’affermazione
perentoria; questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.
I discepoli sono sbalorditi, sconcertati; di cosa parla, il Rabbì?
Gesù non usa parole a caso, sa bene ciò che fa,
crede profondamente in ciò che dice.
La sua passione inizia qui, la sua crocifissione,
il dono della sua vita, sono anticipati, qui ora.
Matteo che scrive dopo Marco e che è presente alla cena,
aggiunge un particolare.
Quindi prese il calice, rese grazie e lo passò a loro dicendo: “Bevetene
tutti; questo infatti è il mio sangue dell’Alleanza, che sarà versato per
molti in remissione dei peccati”, (MT 26,27-28).
Il sangue che Gesù sta per versare è un sangue
di purificazione, per il perdono dei peccati.
Gesù svela la sua profonda identità; Egli è l’Agnello pasquale che
manca alla tavola della cena.
Sconcertante; Gesù sta per essere torturato fino alla morte, e si preoccupa
della salvezza dei suoi discepoli, del perdono dei loro e dei nostri peccati.
L’hanno capito gli apostoli; l’abbiamo capito noi?
Ho molti dubbi!
Luca, che scrive contemporaneamente a Matteo, aggiunge una frase
fondamentale, certamente proveniente da Paolo, detta da Gesù: “Questo
è il mio corpo che è dato per voi.
Fate questo in memoria di me”, (Luca 22,19).
Gesù da un ordine preciso ai suoi discepoli; rifate questo gesto.
Non dice; ogni tanto ritrovatevi e brindate alla mia memoria!
Usa una parola tecnica, “zipparon”, che in ebraico significa, ”memoriale”,
e che rimanda alla ritualità della pasqua ebraica.
Celebrare il “memoriale”, perciò significa ripetere
un gesto per rivivere quella esperienza.
Gesù dice; se volete chi Io sia presente, rifate questo gesto.
Ed è nata la S. Messa.
E così accade, ancora oggi.
In obbedienza al comando del Signore.
E così è accaduto, fin dall’inizio.
La più antica testimonianza della fedeltà a questo ordine, ce la fornisce
San Paolo, quando, rivolgendosi alla comunità di Corinto, (siamo
intorno al 55 d.C. pochi anni dopo questa prima cena), scrive; io ho
ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso; che il Signore Gesù,
nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò
e disse: “Questo è il corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”.
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo:
“Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo,
tutte le volte che ne bevete, in memoria di me”.
Quindi tutte le volte che voi mangiate questo pane e bevete a questo calice,
annunziate la morte del Signore, finche Egli venga, (1° Corinzi 11,23-26).
Paolo si preoccupa che nessuno lasci cadere lo straordinario dono dell’Eucaristia.
Che dire amici?
Possiamo discutere per ore sulla qualità scadente delle nostre messe.
Sulla fragilità dei nostri preti.
Sulla mediocrità delle nostre liturgie.
Non dimentichiamo mai, però, che ciò che stiamo facendo è un gesto
di obbedienza al Signore, che continua a consegnarsi, a rendersi presente,
che ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no.
E questo basta e avanza.
Ecco perché a Collevalenza dietro al Crocifisso dell’Amore Misericordioso,
Madre Speranza ha fatto mettere l’Ostia: “Perché possiamo renderci
convinti che in ogni Santa Messa, Lui scende misticamente a rinnovare
il suo gesto d’Amore”.
Questo manca alle nostre celebrazioni; la consapevolezza che Egli è presente,
che quel gesto è un dono d’amore assoluto e sanguinante, definitivo e salvifico.
Luca scrive nel suo Vangelo; prima della cena Gesù disse: “Ho desiderato
grandemente mangiare questa pasqua con voi, prima di partire, perché
vi dico che non la mangerò più finche non sia compiuta
nel Regno di Dio” (Luca 22,15-16).
Quello che è chiaro, è che Gesù sta mettendo tutto se stesso
in questo gesto, tutta la forza e l’amore di cui è capace.
Niente a che vedere con il precetto, l’abitudine, l’identità culturale.
Ma molto a che vedere con l’Amore.
Se credi che Gesù è presente, come fai a non esserci?
Come fa a non pesarti il fatto di non essere alla cena?
Nella tormentata storia della nostra Chiesa, la fedeltà a quest’ordine,
il gesto della cena, è costato la vita a molte persone, ieri e oggi.
Tanti martiri hanno dato la loro vita per celebrare l’Eucaristia,
noi invece, la celebriamo con insufficienza.
Prima della festa di pasqua, sapendo Gesù che era venuta la sua ora per
passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel
mondo, li amò fino alla fine, (GV 13,1).
Così Giovanni, in maniera sorprendente e asciutta, inizia il racconto della cena.
Di cui non parla.
Giovanni va oltre i fatti, raggiunge la sostanza; la cena pasquale è, per Gesù,
il modo di amare i suoi fino alla fine.
Giovanni osa di più; l’intera passione e il modo che Gesù ha di amare
i suoi fino alla fine, fino a consumarsi, fino a scomparire.
L’ora è giunta; ciò che poteva fare lo ha fatto, ha testimoniato e annunciato
l’amore del Padre, ha svelato la sua Misericordia e la sua tenerezza,
ha fondato e formato la comunità che dovrà continuare ad
annunciare il Regno.
Ma le cose non si sono messe come avrebbe sperato, e l’ostilità è cresciuta
accanto a Lui.
Non resta che un ultimo gesto, forte e simbolico.
È l’ora di compiere il passaggio; pasqua, non significa forse, “passaggio”?
Per Israele, passaggio dalla schiavitù alla libertà.
Per Gesù, passaggio da questo mondo al Padre.
Per noi, passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce.
Gesù li ama fino alla fine.
Ma potremmo tradurre, fino al compimento, fino alla pienezza,
fino alla perfezione, fino al termine.
La croce, se correttamente intesa, è perfetta manifestazione della misura
dell’Amore di Dio per noi.
Perché non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici.
E per i nostri nemici, (Romani 5,8; GV 4,10).
Giovanni non parla della cena, ma racconta un particolare
che gli altri evangelisti trascurano; quello della lavanda dei piedi.
È un gesto intenso, sconcertante, che, ancora oggi, provoca turbamento
in chi legge, figuriamoci in chi lo ha vissuto!
Gesù, il Maestro, compie il gesto dei servi,
per farci capire il modo di vivere di un cristiano.
L’abbiamo capito?
Da quello che vedo, credo di no!
Vero Pietro?
Beh, siamo in buona compagnia allora, se non l’aveva capito nemmeno lui!
Perché Giovanni non parla della cena?
Probabilmente, essendo il Vangelo di Giovanni scritto alcuni decenni
dopo gli altri, l’evangelista trascura i particolari conosciuti, riprendendo,
invece, discorsi e azioni tralasciate dagli altri.
Il suo, ricordiamocelo sempre, non è un Vangelo in senso stretto;
è quasi una riflessione sul Vangelo, una meditazione
destinata ai discepoli più progrediti nella vita spirituale.
A me è venuto in mente un’altra ragione, meno teologica, perché mi
piace interpretare.
La lavanda dei piedi è un fortissimo richiamo al servizio,
alla concretezza, alla quotidianità.
Forse Giovanni ha avuto il tempo di vedere delle comunità di discepoli
crescere nella vita interiore, diventare dei grandi mistici, celebrare delle
solenni liturgie.
Dimenticandosi però del fratello.
È un rischio continuo, già segnalato, nella primitiva comunità cristiana,
da San Paolo e San Giacomo.
Come ancora accade a molte nostre comunità parrocchiali; le persone
si ritrovano di Domenica, pregano devotamente, e, appena conclusa la
messa, vivono in totale disarmonia con ciò che hanno celebrato.
Giovanni parlando della lavanda dei piedi, vuole forse dirci che non
possiamo celebrare con verità la cena del Signore, se non ci laviamo
i piedi gli uni gli altri.
Se non ci mettiamo al servizio gli uni degli altri.
E ARRIVIAMO ALLA TENTAZIONE.
Giovanni, che è molto duro con Giuda, ha un’annotazione che fa rabbrividire.
Durante la cena, quando il diavolo aveva già posto in animo a Giuda di
Simone Iscariota di tradirlo, sapendo che il Padre aveva messo tutto nelle
sue mani e che da Dio era uscito e a Dio ritornava, si alzò da tavola,
depose il mantello e, preso un panno, se ne cinse, (GV 13,2-3).
È il diavolo a mettere in animo a Giuda di tradire il Maestro.
Ma è Giuda che sceglie di assecondare questa tentazione,
perciò attenzione, non diamo sempre la colpa al diavolo
di quello che combiniamo noi,
prendiamoci le nostre responsabilità una buona volta.
L’uomo è splendidamente e drammaticamente libero e la sua dignità si
esprime proprio nel dover scegliere e, di conseguenza, nel poter sbagliare.
Esiste una dignità del peccatore, quella di ammettere di avere commesso
uno sbaglio.
E di portarne le conseguenze.
Il nostro mondo, ipocrita, nega la possibilità del peccato, o lo ammette
solo per eventi macroscopici, ignorando palesemente le tante piccole
tentazioni a cui soccombiamo quotidianamente.
Il peccato non esiste più, meno male, era solo un’invenzione dei preti!
Solo se siete dei narcotrafficanti o degli stupratori, peccate,
tutto il resto sono piccolezze.
Evadere le tasse, inquinare, mentire, assecondare la libidine, spettegolare
(oggi si dice gossip, fa meno provinciale), parlare sboccatamente,
vivere nell’egoismo, usare toni maleducati e violenti, sono tutti
peccatucci insignificanti.
E intanto la civiltà occidentale muore nei propri vizi.
Giuda ci ricorda la grandezza dell’uomo; il diavolo suggerisce,
ma l’uomo acconsente.
È sempre l’uomo, alla fine, che decide se assecondare o meno la tentazione.
Giuda, come noi, è attore, non autore del male,
può scegliere di non viverlo.
Dentro ciascuno di noi c’è un mentitore, un adultero, un assassino, un ladro.
Ma lo possiamo fermare, limitare, bloccare. E convertire.
Giuda ha in mano il suo destino e, lo getta alle ortiche.
Anche Gesù, dice Giovanni, ha tutto nelle sue mani.
E lo mette a disposizione dei discepoli, ne fa dono, si fa dono.
Gesù depone il mantello della sua regalità, la divinità, la sua superiorità.
Se ne libera, se ne spoglia, per testimoniare quanto amore ha per i discepoli.
Lui che è Dio, si fa uomo, perché l’uomo possa farsi Dio.
Depone le sue vesti, resta nudo, come sulla Croce.
Indossa un telo, che gli fa da grembiule e da asciugatoio;
è la sua veste definitiva, quello del servo.
Lavarsi i piedi, come dicevamo più sopra, è un gesto necessario per chi
rientra a casa dopo aver camminato con i sandali sulle polverose
strade della Giudea.
Se si era invitati in casa altrui, era buona educazione,
per il padrone di casa, dare la possibilità all’ospite di rinfrescarsi.
Le famiglie più ricche facevano compiere questo gesto
da un servo o da uno schiavo.
Un servo o uno schiavo non giudeo.
Ma era anche il gesto intimo dello sposo verso la sposa,
o della madre verso il figlio.
Per ben otto volte, in pochi versetti, Giovanni
ricorda questo gesto, perché è il cuore della passione.
La chiave interpretativa della cena.
Gesù vuole fare questo gesto spiegandone il significato; Lui che è
Maestro, si fa servo dei discepoli così che, anche i discepoli si facciano
servi gli uni degli altri.
Solo Pietro, al solito, non capisce niente e rischia di rovinare la poesia
del momento, lui è così, arriva a capire sempre dopo la spiegazione,
perché è troppo irruento nei suoi interventi.
Versò quindi dell’acqua nel catino e incominciò a lavare i piedi
dei discepoli e ad asciugarli con il panno del quale si era cinto.
Arriva dunque da Simon Pietro.
Gli disse: “Signore, Tu mi lavi i piedi?”.
Gli rispose Gesù: “Ciò che io faccio, tu ora non lo sai;
lo comprenderai in seguito”.
Gli disse Pietro: “Non mi laverai i piedi. No mai!”.
Gli rispose Gesù: “Se Io non ti lavo, non avrai parte con me”.
Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi,
ma anche le mani e il capo”.
Gesù soggiunse: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se
non i piedi, ed è integralmente puro; e voi siete puri, ma non tutti”.
Sapeva infatti chi stava per tradirlo; per questo disse: “Non tutti
siete puri”, (GV 13,4-7).
Mi correggo; non è vero che Pietro non capisce nulla del gesto.
Lo capisce benissimo, perciò non vuole farsi lavare i piedi dal Maestro.
Per non dover fare altrettanto.
Il gesto di umiltà di Pietro, che non si ritiene degno di farsi
lavare i piedi dal Rabbì, nasconde, invece, una grande arroganza.
Pietro vuole insegnare a Gesù cosa è conveniente fare,
vuole insegnare a Dio come si fa a fare Dio.
Povero Pietro! Lo capisco!
Dio è talmente diverso, sempre altrove, sempre a stupirci,
che viene voglia di correggerlo ogni tanto.
A chi verrebbe in mente di immaginarsi, un Dio servo?
Un Dio umile? Un Dio timido?
Un Dio pronto a dare la sua vita per i nemici?
Gesù ammonisce Pietro; per poter avere parte con Lui, per
poter—davvero—essere configurati a Cristo, dobbiamo seguirlo,
anche nell’umiltà di chi si rende servo.
Capite?
Sì, Signore, capiamo benissimo quello che hai fatto.
E ci spaventa. (GV 13,4-7).
Ci spaventa perché ci svela la sua grandezza, e la nostra piccolezza.
Tu, Signore, sei il Dio che ha creato l’Universo,
e che dici di essere al servizio della nostra felicità.
Non sei un Dio arrogante, e potente, sommo egoista bastante a te stesso,
ma un Dio che ama totalmente i suoi figli, da mettersi al loro servizio.
Non però a servizio dei loro capricci e delle loro ambizioni,
ma della loro felicità più autentica.
No Signore, se vogliamo essere tuoi discepoli, siamo chiamati a imitare
il tuo gesto di servizio, mettendoci gli uni al servizio della felicità degli altri.
Senza cadere in una sindrome depressiva, senza giocare a fare i cattolici
striscianti e umilissimi, senza diventare lo zerbino dei piedi dei colleghi
di lavoro, ma con dignità e consapevolezza, senza cedere ai
ricatti di chi coltiva i nostri sensi di colpa per manipolarci.
Io discepolo, scelgo di far diventare la mia vita un servizio,
nello stile con cui lavoro, mettendo a disposizione le
mie qualità per l’edificazione del Regno,
usando i miei talenti di ascolto, di mediazione, di tolleranza,
nella comunità, facendo il possibile, in famiglia, per aiutare,
da adulto, me e le persone che amo a ricercare la felicità tutta intera.
Io discepolo, non devo aver paura, o vergogna di parlare apertamente
della mia fede.
Servi della felicità per scelta.
Per imitare il Maestro.
È l’unica volta, nel Vangelo di Giovanni, in cui ricorre il sostantivo
“Apostolo” ed è usato per indicare di nuovo il gesto del servizio;
il vero Apostolo si riconosce dal fatto che è servo.
Gesù poi, manifesta ancora una volta la sua preoccupazione per Giuda.
Lui conosce chi ha scelto; Giuda è e resta un discepolo, agli occhi di Gesù.
Gesù, in cuor suo, sa di non aver sbagliato nello scegliere Giuda.
Gesù anticipa il senso del suo patire, che ancora i discepoli ignorano;
quando vedranno ciò che sta per accadere, la misura dell’Amore di Dio
che si fa dono senza misura, capiranno, capiremo,
che Gesù è Io sono, il nome stesso di Dio?
No! Fuggiremo pieni di paura!

Questo è il nostro peccato, non credere nel suo amore.    

Nessun commento:

Posta un commento