Il giorno dell’ultima Cena.
La
città è in fibrillazione per la pasqua ormai imminente,
la
più solenne delle feste ebraiche.
Migliaia
di pellegrini sono saliti a Gerusalemme.
Gli
apostoli ignari, ancora gongolano per gli eventi
della
risurrezione di Lazzaro.
L’ingresso
trionfale a Gerusalemme li ha caricati a mille.
L’idea che la situazione possa precipitare,
ora, neppure li sfiora.
Un
pò come succede a noi, quando, tutto va bene siamo sereni, pieni di
vita
e pensiamo solo a divertirci, per poi appena arriva qualche problema,
cadere
nella disperazione.
Gesù
dice che, dobbiamo essere sempre pronti.
Solo Gesù sa. E Giuda.
Le
cose non stanno affatto andando bene; i sadducei stanno cercando
un’occasione
per ucciderlo.
I
farisei sono urtati dalle sue continue provocazioni.
La
folla che lo ha acclamato e seguito in Galilea, qui in Giudea non
si
lascia coinvolgere più di tanto.
I
suoi apostoli, non hanno capito nulla, poveretti.
Gesù
sa che la sua missione è fallita.
L’uomo
non accetta il nuovo volto di Dio.
Odio
e incomprensione stanno crescendo.
I
sadducei vogliono risolvere in fretta l’affare Gesù, soprattutto dopo
l’eclatante
e inopportuna risurrezione di Lazzaro.
Gesù
sa che quelle potrebbero essere le ultime ore.
Prende
una decisione; lascia Betania e decide di cercare un luogo
a
Gerusalemme dove celebrare una cena.
Una cena d’addio, pensa.
I
suoi, invece, non sanno proprio di cosa si tratti.
La
gente, dentro le mura, è tutta presa dai preparativi.
Si
tratta in quell’ultimo giorno prima di pasqua, di togliere tutto il
lievito
presente entro le mura, come chiesto a Mosè, (Esodo
13,7).
Tutto
ciò che può fermentare, deve essere trovato ed eliminato.
Il
lievito è il simbolo del male, il simbolo dell’orgoglio, dell’arroganza,
che
va bruciato per poter celebrare il passaggio; il lievito è l’immagine
dell’inclinazione
cattiva.
Per
i sette giorni seguenti, non si potrà mangiare pane lievitato,
nelle
case degli ebrei, come prescrive la Torah, (Deuteronomio
16,3-4).
Anche
Gesù, considerato lievito malvagio, dev’essere tolto di mezzo
e
allontanato dalla città per non contaminare la pasqua.
L’agnello
pasquale va consumato dentro le mura della città, i pellegrini
sono
autorizzati a mangiarlo fuori, visto il gran numero di persone
giunte
a Gerusalemme.
Si
tratta di trovare una sala adatta, una stanza pronta.
Gesù
manda due discepoli e affida loro il compito di contattare una persona,
un
tale, conosciuto dai discepoli.
Chi
è questo tale?
Alcuni
scrittori giungono a immaginare che la grande stanza addobbata sia
di
proprietà di un discepolo di Gesù, appartenente alla classe sacerdotale,
che
abita nella città alta.
Forse
addirittura, si tratta di Giovanni l’evangelista, in passato identificato
con
Giovanni l’apostolo.
Che
Giovanni evangelista non sia Giovanni l’apostolo, fratello di Giacomo,
spiegherebbe
molte cose.
Il
fatto che il suo Vangelo sia quasi esclusivamente ambientato a Gerusalemme,
fa
pensare che sia originario della città e non della Galilea come l’apostolo,
che
non dica una parola degli eventi in cui sono coinvolti Pietro, Giacomo e
Giovanni
come riferito dai Sinottici, la sua straordinaria conoscenza della
scrittura,
la presenza, nel prologo, di alcuni temi in uso alla riflessione rabbinica
che
ne fanno non un pescatore, ma, piuttosto, un dottore della legge, la facilità
con
cui entra nella casa del sommo sacerdote Anna e vi fa entrare Pietro, e,
soprattutto,
il fatto che il quarto evangelista non si identifichi affatto con l’apostolo
Giovanni,
sono elementi che rinforzano questa tesi; Giovanni evangelista perciò,
non
è Giovanni l’apostolo.
La
sua presenza accanto a Gesù durante la cena, più vicino di Pietro, si
giustifica
bene
se egli è il proprietario della casa che li ospita.
È
la casa di Giovanni l’evangelista, sacerdote del tempio?
È
possibile!
Mi
piace pensarlo e ci sono degli indizi che sostengono questa tesi.
Mi
piace moltissimo la versione di Matteo, in cui i discepoli dicono alla persona
designata:
il Maestro dice: “Il mio tempo è vicino; vorrei
celebrare la pasqua
insieme ai miei discepoli presso di te”.
Perché
nessuno degli evangelisti ricorda il nome del proprietario della splendida
stanza
alta, addobbata, che diventerà anche il rifugio per gli apostoli dopo la
crocifissione
e, forse, la stanza della Pentecoste?
È
un luogo importante, essenziale, conosciuto dalla primitiva comunità!
Forse
perché è un particolare senza importanza annotano alcuni.
Azzardo
un’ipotesi; se d’avvero è la stanza di un sacerdote, e questo sacerdote
è
l’evangelista Giovanni, forse non era opportuno svelarne l’identità.
O
forse perché l’invito ad addobbare la stanza alta è rivolto a ciascuno di noi,
ad
ogni discepolo.
Gesù
desidera celebrare la pasqua presso ciascuno di noi, nella nostra vita,
nella
nostra stanza interiore.
La
fede non è un evento che ci sfiora, che ci sta accanto, che ci vede
partecipanti
part-time,
l’evento delle feste comandate e della domenica, da tirare fuori
quando
serve.
È
finito il tempo in cui Dio si nascondeva misteriosamente altrove.
Egli
è presente nella quotidianità, incontrabile, riconoscibile, accessibile.
Manifesta
il suo desiderio di stare con noi, di stare con me, con te, con tutti voi.
Abbiamo
allora, una stanza addobbata in cui accogliere il Signore,
nella
nostra vita?
Un
luogo, un tempo, un atteggiamento che gli permetta di celebrare il
dono
della sua vita?
Può
essere un tempo di preghiera quotidiana, un ritiro annuale in una casa
spirituale,
un pellegrinaggio in un luogo santo, non una gita, l’abitudine a
meditare
la Parola e chiederci cosa Lui vuole dirci.
Il
grande dramma del nostro tempo è che lamentiamo l’assenza di Dio.
Ma non ci facciamo trovare.
Dio
ci rende partecipi, si fa nostro ospite, si dona totalmente, solo se lo
vogliamo,
se lo invitiamo.
Perciò,
lasciamoci incontrare!
La
stanza è pronta, grande, spaziosa.
Non
è una cena pasquale, è la cena pasquale.
La
cena dell’addio, del dono, delle consegne.
Ignari,
gli apostoli non sanno quello che sta per succedere.
Gesù
rispetta la sequenza prevista dal rito della cena pasquale, anche se nessun
evangelista
parla di agnello o di erbe amare.
Come
è abituale in una cena di festa.
Gesù
benedice e ringrazia per il pane, all’inizio del pasto.
Poi
alla fine, si benedice e si ringrazia bevendo il vino.
Gesù
però cambia la gestualità e le parole della preghiera di benedizione,
a
cui tutti rispondono amen.
Lo
fa sapendo che sta per dare se stesso in cibo all’umanità.
Tutto
è pronto, ora.
Gli
apostoli chiacchierano, gli eventi degli ultimi giorni li hanno galvanizzati.
Solo
Giuda è scostante, di malumore, sembra pensare ad altro.
Gesù
li ascolta, il suo cuore è gonfio, pieno di gioia per essere lì; ama
teneramente
i suoi discepoli.
Scrive
Giovanni: “Prima della festa di pasqua, sapendo Gesù
che era venuta
la sua ora per passare da questo mondo al Padre; avendo amato i suoi
che erano
nel mondo, li amò fino alla fine”.
Gesù
è disposto ad amare fino alla fine.
Nel
suo intimo, però, l’inquietudine vigila.
Sa che è l’ultima cena.
Sa che tutto sta per finire.
Vuole ancora compiere un gesto, l’ultimo.
Mettiamoci nei panni di Gesù.
Non
storcete il naso, spesso ci mettiamo nei panni di Dio, o
no.
Gesù
è vissuto per trent’anni nell’anonimato, preparandosi alla sua missione,
assumendo
la consapevolezza del suo particolare rapporto con Dio, scoprendo
in
sé la presenza di Dio in maniera unica.
Il
Verbo che lo abita illumina anche la sua intelligenza; Egli sa di avere un
compito
speciale, una missione particolare.
Ha
posto la sua vita al servizio del Regno di Dio, è stato discepolo del Battista,
poi
gli è passato davanti e, nel deserto, ha scelto come proclamare il vero volto
del
Padre; senza durezze, senza trionfalismo, senza compromessi, ma affidandosi
unicamente
alla Parola.
Il suo parlare è intenso, zelante e colto, totalmente diverso da
tutti e conquista le folle.
È
tutto all’opposto di noi, che la Parola sembra proprio ci interessi poco, basta
vedere
quante
persone vanno a Messa quando addirittura è finita l’omelia.
Perché,
la scusa è sempre pronta, il prete non sa parlare bene, avete ragione
mi associo, allora
è meglio entrare nel momento cruciale della Messa.
No; tranquilli, non condivido.
E
se invece fossimo noi, che non ci impegniamo ad ascoltare, magari pensando
alle
nostre varie cose?
Mi
sa che è proprio così, è come quando troviamo il poco tempo per pregare, ma
la
nostra mente è piena di mille cose e ci distoglie da quello che stiamo facendo.
Tranquilli,
vi capisco, capita anche a me certe volte.
Siamo in buona compagnia, allora.
Chiudiamo
la parentesi, ritorniamo al nostro Gesù.
Ha
iniziato la sua predicazione in Galilea, attorniato da alcuni amici e discepoli
con
cui ha condiviso la tavola e i sogni.
Il
suo modo di parlare del Regno, la sua tenerezza, la sua compassione, hanno
fatto
breccia nel cuore delle persone; mai nessuno ha parlato di Dio come
parla
il Rabbino di Nazareth.
Appunto,
Gesù.
La
sua fama si diffonde a macchia d’olio; ora parla davanti alle folle.
Parla
di Dio, della legge, dei precetti.
Non
è presuntuoso, non infastidito dai poveri e dai piccoli, non arrogante.
Qualcuno
dice che compie miracoli, alcuni lo testimoniano, ma non vuole
pubblicità
intorno a questi eventi.
Sale
a Gerusalemme, dove si scontra con la durezza dei sadducei; anche
i
farisei lo guardano con sospetto perché li mette in difficoltà rispetto
alle
troppe, inutili piccolezze dei comandamenti orali.
Ci sono d’esempio le nostre comunità parrocchiali.
La
tensione cresce, Gesù è guardato con sospetto.
Parla
liberamente di Dio, lo considera suo Padre, corregge la legge,
svela
un volto di Dio inatteso e magnifico.
Dio
è un Padre che ama i suoi figli, che li tratta da adulti.
Dio
è un pastore che cerca le pecorelle smarrite e le carica sulle spalle.
Dio
è un vignaiolo che affida all’umanità la sua vigna preziosa.
Dio è un Padre misericordioso, che aspetta i suoi figli peccatori per
perdonarli;
ci ricordiamo, va e non peccare più, la tua fede ti ha
salvato.
Ma
le parole non bastano.
I
suoi collaboratori più stretti sembrano non avere capito molto della
situazione,
che sta precipitando.
Con
quale stato d’animo Gesù celebra quella cena, quel 6 Aprile dell’anno 30?
Forse
con un senso di fallimento.
Come
capita a tutti noi, prima o poi.
È
venuto per annunciare il vero volto di Dio, perché Lui e il Padre sono
una
cosa sola.
Ma l’uomo non ha capito.
La
folla che lo acclama, chiede sempre dei miracoli, come se fosse un
fenomeno
da baraccone.
Questo
capita anche ai nostri tempi, tutti a correre nei vari Santuari in cerca del
miracolo,
tanti vanno a Medjugorje per toccare i veggenti nella speranza che
succeda
qualche cosa di speciale.
Ma
che senta dire, vado in quel posto, per riempirmi di Dio, della sua Parola,
è
una cosa rarissima.
I
farisei, che condividevano molte delle sue idee, lo guardano con sospetto,
hanno
paura perchè è il solo che osa contraddirli.
I
sadducei e la classe sacerdotale lo considerano un pericolo per la stabilità
del
paese,
o delle loro tasche; per forza, parla sempre di
condividere.
I
suoi amici, i più fedeli, non hanno colto la gravità della situazione e si
gongolano
nel loro nuovo ruolo spirituale.
Tutti,
eccetto Giuda, che pensa di accelerare i tempi, di farlo incontrare col
Sinedrio,
e combina un pasticcio assurdo.
Povero
Giuda, ha dovuto sobbarcarsi anche le nostre colpe, il tradimento.
Gesù
ha fallito la sua missione; l’uomo non cambierà mai.
Che
fare allora?
Gesù
chiede consiglio a chi lo ascolta.
Cerca
una luce, una strada da percorrere, ma a nessuno interessa quello
che
deve fare.
L’importante che non rompa troppo.
Cosa
deve fare ancora?
Ecco
la risposta di quelle persone che solo dopo qualche giorno
urleranno
crocifiggilo.
Idiozia
dell’animo umano.
I
vignaioli omicidi chiedono a gran voce di giustiziare i vignaioli omicidi;
chiedono
di essere giustiziati.
Ecco l’imbecillità dell’essere umano.
Sì,
forse dovrebbe fare così; arrabbiarsi, invocare il fuoco del cielo o una
legione
di angeli con le spade fiammeggianti.
Non
alzerà la mano contro i coloni, ma si farà immolare su un
patibolo
per loro e per tutti.
No, non lo farà.
Colui
che non spezza una canna incrinata, tenterà un’ultima strada.
Donarsi,
consegnarsi, osare.
A
partire da ora.
È
una cena pasquale, quella che stanno vivendo.
Cena
intensa, come quella rituale della fuga del popolo schiavo dall’Egitto.
Gesù
prende il pane, all’inizio della cena, lo spezza e lo dona,
come
previsto in occasione delle festività.
Alla
fine prende il calice del vino e, diversamente dal rituale, lo porge
ai
suoi discepoli.
E
parla.
Aggiunge
alle consuete parole di benedizione, un’affermazione perentoria;
questo
è il mio corpo, questo è il mio sangue.
I
discepoli sono sbalorditi, sconcertati; di cosa parla, il Rabbì?
Gesù
non usa parole a caso, sa bene ciò che fa, crede profondamente
in
ciò che dice.
La
sua passione inizia qui, la sua crocifissione, il dono della sua vita,
sono
anticipati, qui ora.
Matteo
che scrive dopo Marco e che è presente alla cena,
aggiunge
un particolare.
Quindi
prese il calice, rese grazie e lo passò a loro dicendo: “Bevetene tutti;
questo infatti è il mio sangue dell’Alleanza, che sarà versato per molti
in
remissione dei peccati”, Il sangue che Gesù sta per versare è un sangue
di
purificazione,
per il perdono dei peccati.
Gesù
svela la sua profonda identità; Egli è l’Agnello pasquale che
manca
alla tavola della cena.
Sconcertante;
Gesù sta per essere torturato fino alla morte, e si preoccupa
della
salvezza dei suoi discepoli, del perdono dei loro e dei nostri peccati.
L’hanno
capito gli apostoli; l’abbiamo capito noi?
Ho molti dubbi!
Luca,
che scrive contemporaneamente a Matteo, aggiunge una frase
fondamentale,
certamente proveniente da Paolo, detta da Gesù: “Questo
è il mio corpo che è dato per voi.
Fate questo in memoria di me”.
Gesù
da un ordine preciso ai suoi discepoli; rifate questo gesto.
Non
dice; ogni tanto ritrovatevi e brindate alla mia memoria!
Usa
una parola tecnica, “zipparon”, che in ebraico
significa, “memoriale”,
e
che rimanda alla ritualità della pasqua ebraica.
Celebrare
il “memoriale”, perciò significa ripetere un
gesto per rivivere
quella
esperienza.
Gesù
dice; se volete chi Io sia presente, rifate questo gesto.
Ed
è nata la S. Messa.
E
così accade, ancora oggi.
In
obbedienza al comando del Signore.
E
così è accaduto, fin dall’inizio.
La
più antica testimonianza della fedeltà a questo ordine, ce la fornisce
San
Paolo, quando, rivolgendosi alla comunità di Corinto, (siamo
intorno
al 55 d.C. pochi anni dopo questa prima cena), scrive; io ho ricevuto
dal
Signore
quello che vi ho trasmesso; che il Signore Gesù, nella notte in cui
fu
tradito, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il corpo,
che è per voi; fate questo in memoria di me”.
Allo
stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: “Questo
calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, tutte le
volte che
ne bevete, in memoria di me”.
Quindi
tutte le volte che noi mangiamo questo pane e beviamo a questo calice,
annunziamo
la morte del Signore, finche Egli venga, (1° Corinzi
11,23-26).
Paolo
si preoccupa che nessuno lasci cadere lo straordinario dono dell’Eucaristia.
Che
dire amici?
Possiamo
discutere per ore sulla qualità scadente delle nostre messe.
Sulla
fragilità dei nostri preti.
Sulla
mediocrità delle nostre liturgie.
Non
dimentichiamo mai, però, che ciò che stiamo facendo è un gesto di
obbedienza
al Signore, che continua a consegnarsi, a rendersi presente,
che
ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no.
E questo basta e avanza.
Ecco
perché a Collevalenza dietro al Crocifisso dell’Amore Misericordioso,
Madre
Speranza ha fatto mettere l’Ostia: “Perché possiamo
renderci convinti che
in ogni Santa Messa, Lui scende misticamente a rinnovare il suo
gesto d’Amore”.
Questo
manca alle nostre celebrazioni; la consapevolezza che Egli è presente, che
quel
gesto è un dono d’amore assoluto e sanguinante, definitivo e salvifico.
Luca
scrive nel suo Vangelo; prima della cena Gesù disse: “Ho
desiderato
grandemente mangiare questa pasqua con voi, prima di partire, perché
vi dico
che non la mangerò più finchè non sia compiuta nel Regno di Dio”.
Quello
che è chiaro, è che Gesù sta mettendo tutto se stesso
in
questo gesto, tutta la forza e l’amore di cui è capace.
Niente
a che vedere con il precetto, l’abitudine, l’identità culturale.
Ma
molto a che vedere con l’Amore.
Se
crediamo che Gesù è presente, come facciamo a non esserci?
Come
fa a non pesarci il fatto di non essere alla cena?
Nella
tormentata storia della nostra Chiesa, la fedeltà a quest’ordine,
il
gesto della cena, è costato la vita a molte persone, ieri e oggi.
Tanti
martiri hanno dato la loro vita per celebrare l’Eucaristia,
noi
invece, la celebriamo con insufficienza.
Prima
della festa di pasqua, sapendo Gesù che era venuta la sua ora per
passare
da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel
mondo,
li amò fino alla fine.
Così
Giovanni, in maniera sorprendente e asciutta, inizia il racconto della cena.
Di
cui non parla.
Giovanni
va oltre i fatti, raggiunge la sostanza; la cena pasquale è, per Gesù,
il
modo di amare i suoi fino alla fine.
Giovanni
osa di più; l’intera passione e il modo che Gesù ha di amare
i
suoi fino alla fine, fino a consumarsi, fino a scomparire.
L’ora
è giunta; ciò che poteva fare lo ha fatto, ha testimoniato e annunciato
l’amore
del Padre, ha svelato la sua Misericordia e la sua tenerezza, ha fondato
e
formato la comunità che dovrà continuare ad annunciare il Regno.
Ma
le cose non si sono messe come avrebbe sperato, e l’ostilità è cresciuta
accanto
a Lui.
Non
resta che un ultimo gesto, forte e simbolico.
È
l’ora di compiere il passaggio; pasqua, non significa forse, “passaggio”?
Per
Israele, passaggio dalla schiavitù alla libertà.
Per
Gesù, passaggio da questo mondo al Padre.
Per
noi, passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce.
Gesù
li ama fino alla fine.
Ma
potremmo tradurre, fino al compimento, fino alla pienezza,
fino
alla perfezione, fino al termine.
La
croce, se correttamente intesa, è perfetta manifestazione della misura
dell’Amore
di Dio per noi.
Perché
non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici.
E
per i nostri nemici, (Romani 5,8; GV 4,10).
Giovanni
non parla della cena, ma racconta un particolare
che
gli altri evangelisti trascurano; quello della lavanda dei piedi.
È
un gesto intenso, sconcertante, che, ancora oggi, provoca turbamento
in
chi legge, figuriamoci in chi lo ha vissuto!
Gesù,
il Maestro, compie il gesto dei servi, per farci capire il modo di
vivere
di un cristiano.
L’abbiamo capito?
Da quello che vedo, credo di no!
Vero Pietro?
Beh,
siamo in buona compagnia allora, se non l’aveva capito nemmeno lui!
Perché
Giovanni non parla della cena?
Probabilmente,
essendo il Vangelo di Giovanni scritto alcuni decenni
dopo
gli altri, l’evangelista trascura i particolari conosciuti, riprendendo,
invece,
discorsi e azioni tralasciate dagli altri.
Il
suo, ricordiamocelo sempre, non è un Vangelo in senso stretto; è quasi
una
riflessione sul Vangelo, una meditazione destinata ai discepoli più
progrediti
nella vita spirituale.
A
me è venuto in mente un’altra ragione, meno teologica, perché mi
piace
interpretare.
La
lavanda dei piedi è un fortissimo richiamo al servizio, alla concretezza,
alla
quotidianità.
Forse
Giovanni ha avuto il tempo di vedere delle comunità di discepoli
crescere
nella vita interiore, diventare dei grandi mistici, celebrare delle
solenni
liturgie.
Dimenticandosi però del fratello.
È
un rischio continuo, già segnalato, nella primitiva comunità cristiana,
da
San Paolo e San Giacomo.
Come
ancora accade a molte nostre comunità parrocchiali; le persone
si
ritrovano di Domenica, pregano devotamente, e, appena conclusa la
messa,
vivono in totale disarmonia con ciò che hanno celebrato.
Giovanni
parlando della lavanda dei piedi, vuole forse dirci che non
possiamo
celebrare con verità la cena del Signore, se non ci laviamo
i
piedi gli uni gli altri.
Se
non ci mettiamo al servizio gli uni degli altri.
Giovanni,
che è molto duro con Giuda, ha un’annotazione che fa rabbrividire.
Durante la cena, quando il diavolo aveva già posto in animo a Giuda
di
Simone Iscariota di tradirlo, sapendo che il Padre aveva messo tutto
nelle
sue mani e che da Dio era uscito e a Dio ritornava, si alzò da
tavola,
depose il mantello e, preso un panno, se ne cinse.
È
il diavolo a mettere in animo a Giuda di tradire il Maestro.
Ma
è Giuda che sceglie di assecondare questa tentazione, perciò attenzione,
non
diamo sempre la colpa al diavolo di quello che combiniamo noi,
prendiamoci
le nostre responsabilità una buona volta.
L’uomo
è splendidamente e drammaticamente libero e la sua dignità si
esprime
proprio nel dover scegliere e, di conseguenza, nel poter sbagliare.
Esiste
una dignità del peccatore, quella di ammettere di avere commesso
uno
sbaglio.
E
di portarne le conseguenze.
Il
nostro mondo, ipocrita, nega la possibilità del peccato, o lo ammette
solo
per eventi macroscopici, ignorando palesemente le tante piccole
tentazioni
a cui soccombiamo quotidianamente.
Il
peccato non esiste più, meno male, era solo un’invenzione dei preti!
Solo
se siete dei narcotrafficanti o degli stupratori, peccate, tutto il resto
sono
piccolezze.
Evadere
le tasse, inquinare, mentire, assecondare la libidine, spettegolare (oggi
si dice gossip, fa meno provinciale), parlare
sboccatamente, vivere nell’egoismo,
usare
toni maleducati e violenti, sono tutti peccatucci insignificanti.
E
intanto la civiltà occidentale muore nei propri vizi.
Giuda
ci ricorda la grandezza dell’uomo; il diavolo suggerisce,
ma
l’uomo acconsente.
È
sempre l’uomo, alla fine, che decide se assecondare o meno la tentazione.
Giuda,
come noi, è attore, non autore del male, può scegliere di non viverlo.
Dentro
ciascuno di noi c’è un mentitore, un adultero, un assassino, un ladro.
Ma
lo possiamo fermare, limitare, bloccare.
E
convertire.
Giuda
ha in mano il suo destino e, lo getta alle ortiche.
Anche
Gesù, dice Giovanni, ha tutto nelle sue mani.
E
lo mette a disposizione dei discepoli, ne fa dono, si fa dono.
Gesù
depone il mantello della sua regalità, la divinità, la sua superiorità.
Se
ne libera, se ne spoglia, per testimoniare quanto amore ha per i discepoli.
Lui che è Dio, si fa uomo, perché l’uomo possa farsi Dio.
Depone
le sue vesti, resta nudo, come sulla Croce.
Indossa
un telo, che gli fa da grembiule e da asciugatoio; è la sua veste
definitiva,
quello del servo.
Lavarsi
i piedi, come dicevamo più sopra, è un gesto necessario per chi rientra
a
casa dopo aver camminato con i sandali sulle polverose strade della Giudea.
Se
si era invitati in casa altrui, era buona educazione, per il padrone di casa,
dare
la possibilità all’ospite di rinfrescarsi.
Le
famiglie più ricche facevano compiere questo gesto da un servo o da uno
schiavo.
Un
servo o uno schiavo non giudeo.
Ma
era anche il gesto intimo dello sposo verso la sposa, o della madre verso il
figlio.
Per
ben otto volte, in pochi versetti, Giovanni ricorda questo gesto, perché è il
cuore
della passione.
La
chiave interpretativa della cena.
Gesù
vuole fare questo gesto spiegandone il significato; Lui che è Maestro, si fa
servo
dei discepoli così che, anche i discepoli si facciano servi gli uni degli
altri.
Solo
Pietro, al solito, non capisce niente e rischia di rovinare la poesia del
momento,
lui è così, arriva a capire sempre dopo la spiegazione, perché è troppo
irruento
nei suoi interventi.
Versò
quindi dell’acqua nel catino e incominciò a lavare i piedi dei discepoli
e
ad asciugarli con il panno del quale si era cinto.
Arriva
dunque da Simon Pietro.
Gli
disse: “Signore, Tu mi lavi i piedi?”.
Gli
rispose Gesù: “Ciò che io faccio, tu ora non lo sai; lo
comprenderai in seguito”.
Gli
disse Pietro: “Non mi laverai i piedi. No mai!”.
Gli
rispose Gesù: “Se Io non ti lavo, non avrai parte con
me”.
Gli
disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi, ma
anche le mani e il capo”.
Gesù
soggiunse: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di
lavarsi se non i piedi,
ed è integralmente puro; e voi siete puri, ma non tutti”.
Sapeva
infatti chi stava per tradirlo; per questo disse: “Non
tutti siete puri”.
Mi
correggo; non è vero che Pietro non capisce nulla del gesto.
Lo
capisce benissimo, perciò non vuole farsi lavare i piedi dal Maestro.
Per non dover fare altrettanto.
Il
gesto di umiltà di Pietro, che non si ritiene degno di farsi lavare i piedi
dal
Rabbì, nasconde, invece, una grande arroganza.
Pietro
vuole insegnare a Gesù cosa è conveniente fare, vuole insegnare a Dio
come
si fa a fare Dio.
Povero Pietro! Lo capisco!
Dio
è talmente diverso, sempre altrove, sempre a stupirci,
che
viene voglia di correggerlo ogni tanto.
A
chi verrebbe in mente di immaginarsi, un Dio servo?
Un Dio umile? Un Dio timido?
Un Dio pronto a dare la sua vita per i nemici?
Gesù
ammonisce Pietro; per poter avere parte con Lui, per poter-davvero-essere
configurati
a Cristo, dobbiamo seguirlo, anche nell’umiltà di chi si rende servo.
Capite?
Sì,
Signore, capiamo benissimo quello che hai fatto.
E ci spaventa.
Ci
spaventa perché ci svela la sua grandezza, e la nostra piccolezza.
Tu,
Signore, sei il Dio che ha creato l’Universo, e che dici di essere al
servizio
della nostra felicità.
Non
sei un Dio arrogante, e potente, sommo egoista bastante a te stesso,
ma
un Dio che ama totalmente i suoi figli, da mettersi al loro servizio.
Non
però a servizio dei loro capricci e delle loro ambizioni,
ma
della loro felicità più autentica.
No
Signore, se vogliamo essere tuoi discepoli, siamo chiamati a imitare il tuo
gesto
di servizio, mettendoci gli uni al servizio della felicità degli altri.
Senza
cadere in una sindrome depressiva, senza giocare a fare i cattolici
striscianti
e umilissimi, senza diventare lo zerbino dei piedi dei colleghi
di
lavoro, ma con dignità e consapevolezza, senza cedere ai ricatti di chi
coltiva
i nostri sensi di colpa per manipolarci.
Io
discepolo, scelgo di far diventare la mia vita un servizio, nello stile con
cui
lavoro, mettendo a disposizione le mie qualità per l’edificazione del Regno,
usando
i miei talenti di ascolto, di mediazione, di tolleranza, nella comunità,
facendo
il possibile, in famiglia, per aiutare, da adulto, me e le persone che
amo
a ricercare la felicità tutta intera.
Io
discepolo, non devo aver paura, o vergogna di parlare apertamente
della
mia fede.
Servi
della felicità per scelta.
Per
imitare il Maestro.
È
l’unica volta, nel Vangelo di Giovanni, in cui ricorre il sostantivo “Apostolo”
ed
è usato per indicare di nuovo il gesto del servizio; il vero Apostolo si
riconosce
dal fatto che è servo.
Gesù
poi, manifesta ancora una volta la sua preoccupazione per Giuda.
Lui
conosce chi ha scelto; Giuda è e resta un discepolo, agli occhi di Gesù.
Gesù,
in cuor suo, sa di non aver sbagliato nello scegliere Giuda.
Gesù
anticipa il senso del suo patire, che ancora i discepoli ignorano; quando
vedranno
ciò che sta per accadere, la misura dell’Amore di Dio che
si fa dono
senza misura, capiranno, capiremo, che Gesù è Io sono, il nome
stesso di Dio?
No! Fuggiremo pieni di paura!
Questo
è il nostro peccato, non credere nel suo amore.
Ed allora
per chi sceglie di Cenare con il Signore; buona Cena,
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